Recensioni

AA.VV., Southern Family

Dave Cobb, Southern Family, album artwork, ca. 2015 courtesy Elektra RecordsARTISTI VARI
Southern Family
Low Country Sound/Elektra
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Nel 1978, in piena epoca punk, un album sulla Guerra Civile Americana interamente concepito da un musicista, compositore e produttore allora mai transitato per gli Stati Uniti riaccese per un breve momento l’interesse di critica e pubblico verso i suoni più autentici, sofferti e tradizionali del profondo Sud.

Se White Mansions sarebbe rimasto un episodio piuttosto isolato, in genere collocato tra le opere minori della discografia di Waylon Jennings (assieme alla moglie Jessi Colter e ai colleghi John Dillon, Eric Clapton, Steve Cash degli Ozark Mountain Daredevils e Bernie Leadon, uno dei protagonisti dell’operazione), e la carriera del suo autore Paul Kennerley, nonostante un ambizioso e altrettanto riuscito sequel di due anni dopo, The Legend Of Jesse James (con Levon Helm, Johnny Cash, Rodney Crowell, Albert Lee, Charlie Daniels e molti altri), sia apparsa a qualcuno nient’altro che una nota a margine dei suoi otto anni di matrimonio, dal 1985 al 1993, con Emmylou Harris, i solchi di quel disco vennero letteralmente consumati da un ragazzo di Savannah, Georgia, cresciuto in una famiglia di pentecostali dove gli unici ascolti permessi riguardavano musica sacra e country adulterato.

Diventato adulto e assimilate le contraddizioni sonore del proprio territorio («un posto dove i vicini mandavano a tutto volume sia Travis Tritt sia Snoop Dogg»), Dave Cobb – 43 anni, una passionaccia per i Meters dei fratelli Neville («la band più funky di tutti i tempi») e per i dischi più neri e groovy dei Rolling Stones, due Grammy nelle tasche – si è spostato a Los Angeles, ha stretto amicizia con il figlio di Waylon, Shooter Jennings, confezionandone l’esordio (Put The “O” Back In Country [2005]) e nel giro di poche stagioni è diventato uno dei produttori più richiesti e rispettati della scena neo-tradizionalista, quella composta da artisti inclini a rivisitare le regole della Nashville più conservatrice attraverso un approccio iconoclasta, strumenti vintage e robuste contaminazioni rock.

Grazie al successo dell’annus mirabilis 2014/2015, in cui Cobb ha messo le mani sopra un poker di dischi favolosi quali Metamodern Sounds In Country Music di Sturgill Simpson, Something More Than Free di Jason Isbell, Traveller di Chris Stapleton e Delilah di Anderson East (chi vi scrive stravede soprattutto per gli ultimi due, ma si tratta di quattro lavori di straordinaria qualità media), il nostro è riuscito a coronare un sogno coltivato sin dall’adolescenza: predisporre, appunto, una specie di remake contemporaneo dell’adorato White Mansions, cercando di replicare, nello spirito se non nella forma, la dimensione cinematografica, l’antropologia popolare, i modi austeri e insieme cordiali di quel disco di quasi quarant’anni fa.

Fin dalle prime battute Southern Family si presenta come un riassunto, e in molti casi un superamento creativo, di tutti gli orientamenti artistici e concettuali di Cobb, quasi un distillato paradigmatico del suo modo di ricomporre gli estremi, dalla sensualità di soul e blues al trasporto religioso del gospel, nella cornice febbricitante e viscerale del meridione statunitense, raffigurato e scandito da una corsa mai banale attraverso il tempo, in un lungo arco di storia americana dove modernità e risonanze oldtimey si confondono l’una con l’altra senza tuttavia mai annullarsi.

Trovi l’articolo completo su Buscadero n. 388 / Aprile 2016.

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