foto: Rodolfo Sassano

In Concert

Blackberry Smoke live a Milano, 29/06/2016

BLACKBERRY SMOKE + SIMO
Carroponte, Sesto San Giovanni 29 giugno 2016

Ci sono cose che sfuggono anche a chi segue il rock da tempo, prendete i Blackberry Smoke, una southern rock band della Georgia attiva dai primi anni novanta che vanta un pugno di album alle spalle (il recente Holding All The Roses è stato prodotto da Brendan O’Brien ed è arrivato al primo posto delle classifiche country in Usa), diligente, musicalmente ineccepibile, scenica quanto basta da far sventolare senza troppa nostalgia la bandiera del southern rock in anni in cui il genere pareva definitivamente archiviato, ma decisamente risaputa se confrontata con quei Black Crowes evocati in più di un frangente nel loro show milanese, tra stacchi, contro stacchi, partenze repentine nelle quali il cantante e chitarrista Charlie Starr si inserisce con giusta scelta di tempo come fosse un seguace di Chris Robinson abbigliato da disertore della Confederazione.

Ma non possedendone il carisma, né quella febbricitante intensità che trasmessa all’ascoltatore diventava una vera comunione apocrifa. Ebbene, l’ultima volta che vidi Chris Robinson e i Black Crowes a Milano, era il 2103 e d’accordo che il “conflitto” al loro interno era divenuto insostenibile, c’erano all’incirca due terzi del pubblico che nella calda serata del 29 giugno ha accolto da trionfatori i Blackberry Smoke al Carroponte di Sesto San Giovanni. Senza togliere nulla a quest’ultimi e alla loro musica, non mi sembra che le proporzioni rispettino la caratura delle due band.

I Black Crowes sono stati la più grande american rock band di fine secolo, con almeno ventiquattro anni di onorata carriera ed una produzione discografica da paura, oltre ad un impatto dal vivo che non è esagerato paragonare a quello dei Grateful Dead, dei Little Feat, degli Allman e dei Gov’t Mule, per rimanere in campo americano, i Blackberry Smoke sono una arzilla band che recupera con nemmeno troppa originalità i cliché del southern rock rinfrescandoli con del corale country-rock e qualche escursione jam. Mi sono quindi sorpreso nel vedere al Carroponte un pubblico così numeroso e generoso di applausi e ovazioni (erano in molti a conoscere le loro canzoni e a cantarle), nei confronti di una band il cui status (almeno da noi) è determinato da tre album di cui uno dal vivo, un concerto lo scorso autunno e due dischi (Bad Luck Ain’t No Crime e Little Piece of Dixie) semi clandestini o merce per soli fans.

Non che la cosa mi dispiaccia, anzi, meglio loro dei Muse (che purtroppo godono di altri numeri) ma mi piacerebbe capire come funzionano certi meccanismi, visto che altre band, ben più originali, per stare nello stesso bacino “sudista” prendete i Drive By Truckers, sputano sangue con dischi e tour e quando arrivano da noi c’è solo un manipolo di disperati ad accoglierli. Misteri del rock, non sono al corrente della eventuale esposizione radiofonica dei Blackberry Smoke ma forse una ragione della loro “sotterranea” popolarità (perché sempre di nicchia si tratta) è la duttilità con cui intercettano pubblici diversi, da quello facile alle lusinghe del mainstream rock a quello che oscilla tra hard-rock e metallo light magari in sella ad una Harley, da quello legato agli antichi splendori del southern rock e nomina ( con estrema leggerezza) i Lynyrd Skynyrd come paragone a quello da sempre affezionato alla commistione tra country e rock n’roll su uno sfondo a stelle e strisce.

Detto questo i Blackberry Smoke non hanno sfigurato ed il loro concerto è scivolato via piacevole, piuttosto prevedibile ma comunque capace di coinvolgere un pubblico che apprezza i diversi cambi di scena della loro musica, tra brani legati al country ed esibiti piuttosto formalmente come fossero una copia del disco, in particolare quelli provenienti dal loro riuscito The Whippoorwill, e ballate che addolciscono il loro spirito southern rebel, tra boogie come Up In The Smoke e blues come Ain’t Got The Blues e quel country-rock dalle tinte redneck (Six Ways To Sun e Good One Comin’) che un po’ fanno venire in mente la Charlie Daniels Band. Oltre a qualche gancio rock n’roll tipo RnR Again, un paio di citazioni classiche tra Beatles e Led Zeppelin, diverse canzoni da sing-along (una su tutte Fire In The Hole), una bella rivisitazione semiacustica di That’s All Right, Mama e qualche momento jam dove, a parere di chi scrive, mostrano il meglio di sé, lasciandosi finalmente andare e riponendo in secondo piano quella vena melodica da AOR che fa venire in mente Alabama e Reo Speedwagon.

Il leader Charlie Starr è l’unico tra i cinque avente una personalità spiccata, una voce che si confà più al country che allo sporco rock del sud, col suo cappellaccio da outlaw e la sua Gibson tiene bene la scena e si destreggia dignitosamente negli assoli che dovrebbero invece essere pane per l’altro chitarrista, molto frenato, Paul Jackson come invece richiede la tradizione del southern rock. Anche il batterista Bill Turner è incartato in un ritmo che si ripete invariato senza troppo dinamismo, un ta-ta-ta-pum da canzoncina country piuttosto scolastico. Brandon Still fa il suo compitino con le tastiere, almeno per quello che si è sentito al Carroponte, se vi torna alla mente Chuck Leavell o Billy Powell o solo Adam McDougall e Danny Louis, sono dolori e il bassista, Richard Turner, pure lui col cappellaccio, è diligente quanto basta. Certo hanno un merchandising di t-shirts bellissime e pittoresche ed il loro look tra barbe, capelli lunghi e ornamenti da ribelli, è coreografico ma viene il sospetto che il loro country-southern rock spruzzato jam sia più un brand che un vero down south jukin’, una bevanda fresca per una notte di mezz’estate che non ha ne l’ ardore ne la salutare asprezza di un poison whiskey distillato clandestinamente.

Tutt’altra storia il gruppo supporter, Simo ovvero il chitarrista J.D Simo, il batterista Adam Abrashoff e il bassista Elan Shapiro, un trio che con quaranta minuti di show ha messo a soqquadro i miei sensi riversandomi addosso entusiasmo, stupore, emozione. Artefici di un sentito, onesto, sanguigno rock-blues tinto di psichedelia d’antan, hanno sciorinato un set ad alto potenziale energetico dove la chitarra del leader, svolazzante, famelica, passionale gode dei servigi di una sezione ritmica micidiale e si traduce in canzoni che hanno una forza d’urto impressionante. Tanti erano venuti apposta per loro e sono stati accontentati, applausi a scena aperta a questi nuovi e giovani performer che mettono l’anima in quello che suonano, figli del rock-blues degli anni settanta, (e come loro ricordo gli svedesi Blues Pills visti qualche mese fa), che magari sono ancora acerbi, senza malizia e irruenti ma spingono il rock-blues oltre la routine, i manierismi e il presuntuoso accademismo dei nomi famosi, il vecchiume del genere.

J.D Simo è una pentola in ebollizione, straordinario, con un solo album noto ai più, Let Love Show The Way, già fa parlare di sé ma vederlo dal vivo è stato ancora meglio perché meno debordante e prolisso. Comunque torrenziale, con uno stile chitarristico che fonde sound americano, qualche accenno di primi Allman Brothers si è sentito, specie in Stranger Blues, e passionalità irish blues, come un Rory Gallagher teso in assoli brucianti, taglienti, che lasciano senza fiato e in qualche momento portano il rock-blues a pascolare nei prati della psichedelia, ricordando che per lui “genere” è una parola vacua che ha significato solo quando dentro c’è entusiasmo, urgenza, bravura tecnica perché anche di questo si tratta.

Non ha una voce memorabile ma non è disprezzabile come cantante e lo si è visto nella incandescente resa di With A Little Help From My Friends. Accanto a lui Abrashoff è una forza della natura, capelli lunghi, a torso nudo picchia, suda, si agita, scompone e ricompone il ritmo, non è mai fine a sé stesso, bravo e tosto, ha numeri da vendere, la batteria è la prosecuzione del suo corpo. Anche il bassista Shapiro è travolto in questo tifone chiamato Simo, un set che mi ha fatto venire in mente i Taste dell’Isola di Wight. Pompa come un indemoniato, incalza, rallenta e riparte e sul più bello estrae una pipa e si mette a fumare, come niente fosse. Incredibili, lasciamo stare i Gov’t Mule che ormai sono hors-categorie e volano in una dimensione tutta loro che arriva fino al jazz, ma questo trio è quanto di più eccitante ho sentito e visto nel rock-blues bianco (metteteci anche nero) da un po’ di tempo a questa parte.

I titoli del loro set? Ma chi se li ricorda, oltre a Stranger Blues mi sembra che ci fossero Who Timin’ Woman, I’d Rather Die In Vain , Long May You Sail con quell’accenno celtico da comunità irlandese di Boston e quella devastante coda elettrica, oltre alla viscerale With A Little Help From My Friends in versione Joe Cocker. Certo la musica di Simo non è roba per puristi o esteti, tanto meno per mammolette del rock, è sangue, sudore e polvere da sparo, e se fosse stato per il sottoscritto avrei invertito la scena, i Blackberry Smoke a supporter di Simo. Non tiratemi le pietre.

Qualche scatto dal concerto dei Blackberry Smoke a cura di Rodolfo Sassano.

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