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Gioia e rivoluzione: in ricordo di Paul Kantner

In ricordo di Paul Kantner (1941 – 2016)


Con quei capelli lunghi, chiari e ondulati, quei denti bianchissimi, quegli occhiali da intellettuale della high-school e quel mento volitivo da ragazzone americano, Paul Kantner, nato Paul Lorin Kantner nel 1941, a San Francisco, da una famiglia di origine franco-tedesca, somigliava a John Sebastian dei Lovin’ Spoonful, solo con un’esorbitante quantità di ulteriori droghe in corpo.

Per Kantner, queste ultime – le droghe, sintetiche o naturali – erano una specie di fissazione, anche se a interessarlo non era la cultura dello sballo in sé ma la possibilità di espandere la coscienza. D’altronde, i limiti dell’animo umano e il loro superamento, onirico o tangibile, erano diventati un suo pallino fin dai tempi in cui, precoce orfano di madre, aveva scoperto la musica tradizionale e i romanzi di fantascienza tra le quattro mura di una scuola cattolica, inaugurando due infatuazioni durate una vita intera.

Aveva preso il controllo dei Jefferson Airplane, formati da Marty Balin nell’estate del 1965, a pochi mesi dal suo ingresso in formazione, caldeggiando l’assunzione dell’amico Jorma Kaukonen (come lui chitarrista, nonché parimenti innamorato della old time music) e spingendo il gruppo verso una direzione sempre più incalzante, visionaria, carica di impegno politico e sociale. (Anche) grazie a lui, i Jefferson Airplane divennero un simbolo del controcultura del periodo, depositari del verbo del rock acido e della psichedelia per le masse, attenti a divaricare le porte della percezione sebbene decisi a farlo coinvolgendo il maggior numero di adepti possibili tramite melodie a presa rapida e canzoni indimenticabili.

Dallo slabbrato folk-rock degli esordi al monumentale beat lisergico di opere mature quali After Bathing At Baxter’s (1967), probabilmente il loro capolavoro, e Crown Of Creation (1968), i Jefferson incarnarono l’emblema del cosiddetto «suono di San Francisco», fino a trasformarsi nella colonna sonora prediletta dai ragazzi trasferitisi in California, alla ricerca dell’estate dell’amore, e dagli spettatori accorsi a Woodstock, a Monterey e in quel di Altamont, magari convinti di trovare, oltre alla musica, il concretarsi di un sogno hippie a base di musica e allucinogeni.

Definiti da Rolling Stone «il John Lennon e la Yoko Ono della psichedelia», Kantner e la sua seconda cantante in seno ai Jefferson Airplane, la Grace Slick arrivata dai Great Society, furono metafora dell’eros, del desiderio e dell’irriverenza di una fetta di società allergica agli schemi conformisti della propria epoca, in ogni circostanza occupati a elaborare piani di fuga (nella Wooden Ships scritta con David Crosby e Graham Nash) e utopie futuribili passate alla storia del rock con i titoli di Blows Against The Empire (1970), Sunfighter (1971) o Baron Von Tollbooth & The Chrome Nun (1973), tre dischi eccelsi – favolosi i primi due, buono il terzo – per delineare altrettante evasioni dal quotidiano fatte di sussurri country, divagazioni cosmiche, strumenti etnici, blues rurali e lunghe jam tra luci e ombre.

Sono questi gli album, più ancora di quelli celebratissimi e fortunati dei Jefferson Airplane, i lavori in cui Kantner riuscì a trovare la sintesi perfetta tra ideali pacifisti, amore per il folk, rivendicazioni politiche e proiezioni avveniristiche, secondo gli impulsi di una tensione sociale mai venuta meno e, anzi, spintasi al punto di portare in tribunale chiunque, negli anni, avesse cercato di utilizzare le sigle «Jefferson Airplane» o «Jefferson Starship» senza il consenso suo o di Grace Slick. E a proposito di «navicelle spaziali» (starship), queste diventarono il suffisso dei Jefferson allorché il gruppo, abbandonato da Kaukonen e Jack Casady per creare gli Hot Tuna, scelse di sbarazzarsi delle sonorità dei ’60 per orientarsi verso un rock da arena di tappa in tappa più aggressivo, roboante e scontato, un processo forse inevitabile, da parte di un sognatore come Kantner, dopo la trasmigrazione del flower-power nelle scene della guerriglia urbana, nel dogmatismo politico, nel trip nauseante di una società ubriaca di paranoia e sospetto.

Mollati anche i Jefferson Starship, nella convinzione che la band e la musica in genere si fossero fatti troppo «mondani», Kantner ha continuato a vivere le sue idee di comunione e ribellione portando la propria, inconfondibile chitarra a cavallo tra jazz e blues in contesti sempre più intimi, austeri, minimali. Non ha mai smesso di fumare una tonnellata di Camel senza filtro al giorno, perché se tutti dovevamo morire, in attesa di ricongiungerci con le vibrazioni delle spazio profondo, allora tanto valeva farlo per qualcosa che ci piacesse, come la musica, il sesso, la droga o, perché no, le sigarette. Scomparso il 28 gennaio, all’età di 74 anni, a causa di uno shock settico e del collasso di diversi organi interni, Paul Kantner è tornato a essere un cittadino del cosmo, nel suo altrove primordiale, dove lo attende la gloria di chi non ha mai ceduto al disinganno e alla sconfitta.

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