da “Una poltrona per due” (Trading Places, 1983)

Speciali

Junior Bonner’s Christmas Playlist 2015 (o la compilation natalizia di Buscadero)

Una cosa è certa: il Natale non è più quello di una volta. Tra politici nazionalisti impegnati a recitare la parte dei Re Magi (peraltro iraniani) e ricchi petrolieri russi disposti a spendere cifre folli per acquistare il paté di lumache prodotto in Lombardia, persino il James Stewart della Vita È Meravigliosa (1946) sarebbe talmente disorientato, aggirandosi nell’Italia pre-natalizia del 2015, da rendere ancora più complicato il compito dell’angelo custode Henry Travers, col rischio di finire come il Dan Aykroyd di Una Poltrona Per Due (1983).

Diventate le festività nient’altro che un’occasione per fare il punto sulle acconciature, gli accessori e l’abbigliamento da sfoggiare a tutti i costi davanti ai parenti o nei ricevimenti ufficiali, ai musicofili, magari appassionati alla tradizione tutta anglo-americana degli album natalizi e sinceramente un po’ perplessi di fronte al Natale hipster di Sufjan Stevens (tra il 2006 e il 2010 autore di 10 extended, raccolti in due cofanetti separati, di canzoni sul tema) e altri furbacchioni intenti a spacciare rimasticature dell’ovvio per posa intellettuale, non resta altra via d’uscita se non quella di ignorare la ricorrenza o percorrerla in modo alternativo.

Essendo la musica un fatto di inclusione e non di rifiuto, da queste parti abbiamo preferito abbracciare la prima ipotesi: ecco, insomma, la nostra idea di una possibile antologia natalizia, forse non adattissima al consumo familiare (specialmente se in famiglia c’è qualcuno in grado di decifrare all’istante certi testi) ma in ogni caso intonata alla celebrazione, perché il Natale è un periodo di regali, buoni sentimenti e scene di armonia domestica (tre elementi molto cari a chi se li può permettere), nonché, per noi soprattutto, di musica. 15 canzoni, dunque, per altrettanti artisti e stati d’animo (più una piccola, ulteriore strenna per chi avrà la pazienza di arrivare fino in fondo), scelti cercando di non ricorrere ai capisaldi del genere (niente Bing Crosby, Frank Sinatra, Elvis Presley, Ella Fitzgerald o A Very Special Christmas [1987], in questo elenco, niente Bruce Springsteen di Santa Claus Is Coming To Town o Pogues di Fairytale Of New York) e provando anzi a tracciare un sentiero lontano dalle tappe più frequentate. Dei brani selezionati, 5 appartengono, per anagrafe, esecutore o contenuto, all’ambito dei classici, altri 5 al settore delle opere “stagionali”, dal punto di vista dell’argomento, ma fuori dagli schemi entro cui questo viene di solito affrontato, e altri 5 ancora, infine, vengono da dischi usciti quest’anno. Finita la premessa, buon viaggio e buone feste a tutti Voi.


I CLASSICI

 

Single_Bobby_Helms-Jingle_Bell_Rock_coverBOBBY HELMS
1. Jingle Bell Rock [Decca, 1957 – 7”]

Artista country di buon successo negli anni ’50, Robert Lee Helms, meglio noto come Bobby Helms e scoperto, in senso artistico, da Ernie Tubb, è passato alla storia, più che per il suo stile nervoso e sincopato, molto vicino al rockabilly, per questo surreale brano natalizio, diventato negli anni una colonna della cultura popolare americana al punto di apparire in film, cartoni animati e rappresentazioni di ogni genere. Secondo Helms, molto seccato anche per la stupidità del lato B abbinato alla canzone (Captain Santa Claus And His Reindeer Space Patrol, «Capitan Babbo Natale e la sua pattuglia spaziale di renne»), Jingle Bell Rock non valeva nulla, e difatti la incise solo per assecondare il desiderio di chi, all’interno della sua casa discografica, lo vedeva adatto a incarnare una versione appena più infantile di Elvis Presley o Jerry Lee Lewis: in poche stagioni, il 45 giri del pezzo avrebbe venduto oltre 100 milioni di copie. Alcuni studiosi attribuiscono all’artista il primato nell’intrecciare atmosfere natalizie rock’n’roll, anche se, a ben vedere, il titolo del brano, dove di r’n’r non c’è traccia o quasi, significa soltanto «le campane suonano» (difatti la rifarà pure, nel 1961, Johnny Dorelli). Nelle prime note del ritornello vi si può sentire la chitarra di Hank Garland, già musicista di Elvis, Roy Orbison, Marty Robbins e cento altri. Poco prima di morire, nel 2004, Garland denuncerà gli eredi degli autori del brano – Joseph C. Beal e James R. Boothe, due pubblicitari – rivendicandone la paternità.

https://vimeo.com/54479154


SPIKE JONES & HIS CITY SLICKERSSPIKE JONES & HIS CITY SLICKERS
2. All I Want For Christmas (Is My Two Front Teeth) [RCA Victor, 1948 – 78 rpm]

Nel 1944, Don Gardner – insegnante di musica presso le scuole pubbliche di New York – chiese ai propri scolari cosa desiderassero ricevere in regalo per Natale. Mentre questi rispondevano, Gardner notò come alla metà di loro mancassero almeno uno o due denti davanti e in pochi minuti ci scrisse sopra una canzoncina, All I Want For Christmas (Is My Two Front Teeth), da eseguire alla festa di fine anno. Dato lo strepitoso riscontro tra genitori e colleghi, Gardner provò per curiosità a depositare il brano nel repertorio di un editore. Quattro anni dopo il pezzo venne adocchiato da Spike Jones, strepitoso batterista californiano dai primi ’40 dedito, con i suoi City Slickers, alla dissacrazione di qualsiasi moda musicale del momento, in genere strapazzata con un campionario di rumori, stoviglie, esotismi e versi di animali paragonabile a quello, centuplicato, di un cartone Disney (difatti Jones era diventato famoso per aver spiegato agli americani come i “Nazi” fossero nutzi, «scemi», riprendendo la canzone di un cortometraggio di Paperino). Jones mise davanti al microfono il trombettista George Rock, famoso per la sua voce da bambino, e incise All I Want For Christmas (Is My Two Front Teeth) dirigendo un’orchestra di starnuti, kazoo e campane a ritmo indiavolato. «Qualcuno la troverà curiosa», aveva detto l’editore al maestro Gardner, «ma non sarà mai un successo»: solo nel 1948 (senza contare le innumerevoli versioni successive), il singolo della canzone vendette più di due milioni di copie.


ike-and-tina-turner-merry-christmas-baby-warner-brosIKE & TINA TURNER
3. Merry Christmas Baby [Warner Bros., 1964 – 7”]

Una pietra miliare delle celebrazioni natalizie da parte di musicisti afroamericani, non a caso rifatta un po’ da tutti e in modo indimenticabile sia da BB King sia da Otis Redding. La versione migliore – la più incendiaria – è però quella architettata da Ike Turner, su appiccicoso beat funkeggiante, per la moglie Tina (al secolo Anna Mae Bullock), che in fondo al brano ruggisce il «jingle all the way» più scartavetrato, sensuale e ferino dell’intera storia dei repertori stagionali. Unita nella musica come nella vita, dal 1960 al 1976, la coppia diede luogo a uno dei complessi r&b più sanguigni e bollenti del periodo, concepito da Ike – uno dei primogenitori, con la Rocket 88 targata 1951, del r’n’r come lo conosciamo oggi – alla stregua di uno sguardo fisso, penetrante, soul, ossessivo e da voyeur sul carisma erotico della compagna, incoraggiata trattare ogni brano (compreso questo!) alla maniera di un affresco vocale, esplicito quant’era possibile secondo la rigida morale di allora, sul piacere femminile. Nel testo della canzone, prima di definirsi «tutta accesa / come un albero di Natale», la cantante ringrazia il marito per averla «trattata bene» regalandole un anello di diamanti. Nella realtà invece, come avremmo scoperto nella seconda metà dei ’70, allorché Tina riuscì a scappare da un albergo, divorziare e rimettersi in gioco da solista, le cose non stavano proprio così: pare infatti che in casa Turner, stante l’incontrollabile consumo di cocaina e psicofarmaci da parte dell’uomo, insulti, schiaffi e percosse fossero all’ordine del giorno, fino a spingere Tina (sovente picchiata con un calzascarpe per i motivi più futili) verso un tentativo di suicidio poi consumato a Los Angeles, nel 1968, inghiottendo 50 pastiglie di Valium prima di un concerto.


leon redboneLEON REDBONE & DR. JOHN
4. Frosty The Snowman [August Records, 1988 – dall’album Christmas Island)

Secondo solo, in termini di popolarità, a Rudolph («la renna dal naso rosso»), il pupazzo Frosty – un omino di neve reso vivo dalle proprietà magiche di una tuba in velluto – è entrato a pieno titolo nel pantheon delle celebrità natalizie a stelle strisce pur nascendo in una canzone dove il Natale non viene mai nominato. Frosty The Snowman venne infatti scritta per il «cowboy canterino» Gene Autry allo scopo di bissare il successo ottenuto la stagione precedente con il brano Rudolph, The Red-Nosed Reindeer (appunto), e anche stavolta il riscontro fu tale da proiettare il personaggio al cuore della cultura pop e in cima alle preferenze dei ragazzi. Fu Ronnie Spector, cattolica, a suggerire il pezzo all’ebreo Phil Spector affinché questi lo inserisse nel suo monumentale A Christmas Gift For You From Phil Spector (1963), il disco di Natale più bello di tutti i tempi (ma troppe volte citato, a ogni latitudine, per riapparire anche qui), e fu il canadese-cipriota Leon Redbone, 25 anni dopo, a proporne all’amico Dr. John una nuova interpretazione in occasione dell’album Christmas Island. Delizioso il disco e delizioso il brano, ripreso da Redbone, in ossequio alla mai sopita passione per i suoni retrò dell’America del primo ‘900, come una filastrocca semiacustica cantata, da entrambi, rifacendosi alle onomatopee e agli scioglilingua di Jimmy Durante. Molto buffo, e visto oggi pure lui adorabilmente vintage, il video realizzato all’epoca, dove i due, vestiti da damerini dell’epoca vittoriana, recitano le proprie strofe sotto una (falsa) precipitazione nevosa in montaggio alternato a spezzoni in bianco e nero delle festività americane di tanti anni prima.


braindrainRAMONES
5. Merry Christmas (I Don’t Want To Fight Tonight) [Sire, 1989 – dall’album Brain Drain]

Hanno rivoluzionato la storia del rock, i newyorchesi Ramones, ma di certo non erano dei rivoluzionari né in senso politico né sociale. Innescarono il punk, in fondo, perché volevano sentire musica veloce, come al tempo dei loro esordi non si ascoltava o produceva più, e tuttavia, a parte questo, litigavano di continuo. I più ostili in assoluto erano Johnny e Joey, divisi dalla politica, dalla disciplina e, in ultimo, anche dai sentimenti, al punto di non rivolgersi più la parola dai primi ’80. Benché su certi valori americani – il baseball, la torta di mele, il Natale – più o meno concordassero, su tutto il resto le divergenze erano insanabili. Johnny chiamò Joey solo quando questi, devastato da un tumore, si trovò, nella primavera del 2001, in punto di morte. Chissà se Johnny aveva appreso di come Joey si fosse rimesso al lavoro su di un brano del gruppo già pubblicato, Merry Christmas Baby (I Don’t Want To Fight Tonight): apparso in origine sul 7” di I Wanna Live, antipasto in formato 45 giri del non irresistibile Brain Drain (1989), il pezzo, dopo aver figurato nell’EP Christmas Spirit… In My House (2002), sarebbe poi stato usato anche nel postumo Ya Know? (2012), il secondo album accreditato al solo Joey. Chissà se Johnny, dietro la classica progressione di (due) accordi sgraffignata alla classica Blitzkrieg Bop (ma tutti i brani dei Ramones, in fondo, sono degli eterni rifacimenti della loro Blitzkrieg Bop) aveva finalmente colto l’innocenza e la semplicità dell’immaginario di Joey. Chissà se Johnny, in quelle parole tanto elementari quanto universali («Io ti amo e tu mi ami / E così deve essere / Ti ho amato dall’inizio / Perché Natale non è il momento giusto per spezzarsi il cuore a vicenda»), aveva letto il sempiterno invito, da parte del vecchio amico, a lasciarsi alle spalle le incomprensioni e tornare all’essenza della musica così amata da entrambi: tornare ragazzi un’ultima volta, infilare i jeans sdruciti, indossare il giubbotto di pelle, accendere la radio e correre ancora verso la spiaggia di Rockaway Beach per guardare i gabbiani.

https://www.youtube.com/watch?v=4Y5GtaTrPHM


STAGIONI DIVERSE

 

KOZELEKMARK KOZELEK
6. Christmas Time Is Here [Caldo Verde, 2014 – dall’album Sings Christmas Carols]

Cinquant’anni fa (era il 1965), il jazzista Vince Guaraldi scrisse le musiche per lo speciale televisivo A Charlie Brown Christmas, diretto dal regista Bill Melendez ispirandosi ai personaggi creati da Charles M. Schulz nelle strisce, celeberrime, dei suoi Peanuts. Benché sovvenzionato dalla Coca-Cola, Schulz decise di confezionare una sceneggiatura, dolce e malinconica (se non amara) come i suoi personaggi, grazie alla quale gli spettatori potessero riflettere sul vero significato – la nascita di Gesù Cristo – di un Natale ormai ostaggio di abitudini secolari e mire commerciali. Nonostante le perplessità della CBS, il programma ottenne un successo clamoroso (tanto da essere replicato ancora oggi) e raggiunse persino gli angoli più remoti della nazione, dove popolarissime furono non soltanto le immagini ma anche la colonna sonora di Guaraldi (2 milioni di copie vendute) e in particolare il tema Christmas Time Is Here, presentato (pure sull’album) in una versione, cantata (da bambini), di due minuti e in un’altra, strumentale, di sei. Qualche anno dopo, il cartone animato intercettò la fantasia e i pensieri di Mark Kozelek, nato nel 1967 a Massillon, cittadina della Stark County («contea desolata»: un nome, un programma) dell’Ohio, e futuro leader di Red House Painters e Sun Kil Moon: Kozelek si affezionò a tal punto alle disavventure di Charlie Brown (che nei fumetti di Schulz è sempre, molto semplicemente, lo stesso Gesù in croce quotidiana) e al suo dolente tentativo di decorare uno scheletrico abete da riprendere Christmas Time Is Here in apertura di Sings Christmas Carol (2014), album natalizio alquanto sui generis. Qui, il musicista non solo ripercorre la versione cantata, ma lo fa aggiungendovi anche il dialogo tra Charlie Brown e Linus («Di tutti i Charlie Brown che conosco, tu sei il più Charlie Brown!») e ritagliandosi, ovviamente (data la buona dose di ego), il ruolo del primo; a contare, però, è l’atmosfera elegiaca dell’insieme, tra sussurri e fingerpicking di una chitarra dalle corde in nylon intenta a sviscerare un mondo di ricordi con l’orgoglio, l’eccentricità e il senso di un dolore inesauribile tipici dell’artista.


lowLOW
7. Just Like Christmas [Tugboat, 1999 – dall’EP Christmas]

Ogni anno, il 25 dicembre, la Piazza del Tempio, a Salt Lake City nello Utah, viene illuminata da migliaia di luci: questo perché, anche se per loro Gesù è nato il 6 aprile, i Mormoni americani non trovano nulla di strano nel celebrare una ricorrenza spiritualmente importante per tanti esseri umani sparsi in tutto il mondo. Alan Sparhawk e Mimi Parker, marito e moglie, entrambi mormoni (lui nato in una famiglia di affiliati alla Chiesa di Gesù Cristo dei santi degli ultimi giorni, lei convertita in età adulta), nonché sei corde e bacchette dei Low, massimi esponenti di uno slowcore elettroacustico fatto di silenzi, ballate fragili come ali di farfalla e rintocchi ipnotici, hanno a loro volta celebrato il Natale con un extended intitolato, icasticamente, Christmas (1999) e dedicato in egual misura a riletture di brani altrui, piccole rarità e canzoni composte per l’occasione. Just Like Christmas, in apertura (al contrario della successiva Long Way Around The Sea, talmente introversa da far male), contraddice le abitudini del gruppo facendo ricorso a una trama di batteria molto esuberante, a un’acida chitarrina beat e a un’insospettabile binomio di cimbali e campanelle. Eppure, nelle laconiche parole del brano – due sole strofe a fronte di una continua ripetizione del titolo – ci sono tutti gli abissi di un’infelicità esistenziale che, sapendosi immutabile, tiene a distanza i sogni per accontentarsi del calore dei corpi, arrivando, anche dietro l’apparente espansività, a entrare nel vivo, nei tagli, nelle ferite metaforiche e reali della vita quotidiana: «Mentre viaggiavamo verso Stoccolma / Iniziò a nevicare / Tu dicesti, è come se fosse Natale / Ma ti sbagliavi / Non era per niente come Natale / Raggiunta Oslo la neve si era sciolta e noi ci lasciammo andare / I letti erano piccoli, ma ci sentimmo così giovani».


kinksTHE KINKS
8. Father Christmas [Arista, 1977 – 7”]

Dal più iconoclasta tra i grandi autori di canzoni del Regno Unito, il Natale più imprevedibile, sarcastico e velenoso mai messo su vinile. In seguito recuperata sulla ristampa in CD del quasi contemporaneo Misfits (uscito nella primavera dell’anno dopo), Father Christmas esce su 45 giri nel novembre del ’77, in piena tempesta punk (e tanto per mettere le cose in chiaro, il lato B s’intitola proprio Prince Of The Punks), e fornisce a tutti gli sbruffoni con spille da balia e chiome ossigenate una lezione su cosa significhi essere caustici senza doverlo surrogare attraverso l’esteriorità. Nella visione di Ray Davies e dei suoi Kinks, allora impegnati a rendere ancora più affilato il power-pop rockista col quale sfonderanno, di lì a poco, negli stadi americani, Babbo Natale è un poveraccio che, pur non avendo mai creduto alla storia del munifico vegliardo, si trova a impersonarlo fuori da un grande magazzino. Costui viene assalito da una banda di giovani teppisti a cui i regali, però, non interessano: la minaccia è quella di consegnargli dei soldi (al limite «un lavoro» per il padre di uno di loro, o una pistola «per spaventare i marmocchi della strada»), altrimenti verrà picchiato senza pietà. Non abbiamo tempo per i tuoi stupidi giocattoli, dicono i delinquenti al malcapitato sosia di San Nicola, quelli puoi darli ai mocciosi ricchi; noi vogliamo la grana. Il contrasto tra gli effetti sonori del brano (campane e percussioni tipici della stagione illustrata), i riff elettrici dei fratelli Davies e l’aspro retaggio blue-collar di un’Inghilterra povera, rabbiosa e carica di risentimento, non potrebbe essere più stridente di così. L’occhio dei Kinks, come pure il portamento del loro assetto rock, resta essenziale, cronachistico, allenato a trarre il proprio impatto emotivo dall’impiego di un senso dell’umorismo tanto robusto quanto disperato. Forte del naturalismo connaturato a scenografie narrative prive di affettazioni o glamour, Ray Davies si conferma tra i pochi (pochissimi) compositori in grado di affrontare l’attualità senza soccombere alla noia e ai toni da comiziante.


joni mitchellJONI MITCHELL
9. River [Reprise, 1971 – dall’album Blue]

Forse il brano più famoso tra quelli inclusi in questa lista (se ne contano 432 versioni diverse), ma al tempo stesso una meditazione solitaria e nostalgica, quindi molto lontana dai sentimenti in genere attribuiti alla stagione natalizia, di intensità lancinante e originalità indiscutibile. Dal capolavoro Blue (1971), quasi tutto realizzato per chitarra e dulcimer, la canadese Joni Mitchell si abbandona alla rievocazione delle nevi, delle superfici glaciali e degli sport invernali tipici del suo Saskatchewan (sulla copertina dell’antologico Songs Of A Prairie Girl [2005] la vedremo pattinare sul ghiaccio), per esorcizzare la fine di una storia d’amore e raccontare il disorientamento, la malinconia, l’amarezza e la disillusione di una figlia del Nord trapiantata in California. Introdotta da un fraseggio di pianoforte basato sulla melodia di Jingle Bells, River cresce dolente e straziata come il desiderio dell’autrice di «avere un fiume sul quale scivolare via». Una canzone magnifica sulla passione, i patimenti, il tormento e l’inquietudine di una vita fin troppo consapevole, dove l’artista si definisce «triste e arrogante / difficile da maneggiare», senza nessuno sconto e nessuna forma di edulcorazione rispetto a un’autocritica feroce, razionale, spietata. Il piano dell’autrice graffia e incide un ritratto personale sull’orlo della disperazione di una donna inadatta alla società in cui vive ma che si capisce bene (fin troppo), così bene da delineare tutte le piccole e grandi tragedie interiori con cui è costretta a fare i conti: il desiderio di una sicurezza economica a separarla dal paese d’origine, il desiderio sessuale destinato a restare inappagato per troppo orgoglio, il desiderio febbrile di autonomia crollato davanti a un ricordo d’infanzia. È Natale, e sebbene tutti eseguano «canzoni di gioia e serenità», non tutti i desideri saranno esauditi.

https://www.youtube.com/watch?v=nAK9Pj5-QXY


tomwaitsTOM WAITS
10. Christmas Card From A Hooker In Minneapolis [Asylum, 1978 – dall’album Blue Valentine]

Lei scrive una lettera. Ho smesso di farmi, di bere whisky e ora ho un bravo marito, racconta a Charley, uno che suona il trombone e dice di amarla benché lei sia incinta, e non di lui. Le ha regalato un anello e la porta a ballare tutti i sabati, prosegue. Lei, però, continua a pensare a Charley, e glielo dice: ho ancora quel vecchio 45 giri di Little Anthony e degli Imperials, ma qualcuno mi ha rubato il giradischi. Vedi, Charley? Sono felice, ora; certo, se avessi tutti i soldi che noi – io e te, Charley – abbiamo speso in droga, potrei comprarmi un intero parcheggio di auto usate, ma non per rivenderle, no, solo per guidarne una diversa ogni giorno, a seconda dell’umore. Una cartolina natalizia di questo tenore, scritta «da una battona di Minneapolis», non poteva spedirla nessun altro se non Tom Waits, negli anni ’70 occupato a musicare le notti, i drink, i bar, le storie d’amore da quattro soldi e le nebbie alcoliche della Los Angeles più vicina a Hollywood, con tutto il suo corollario di perdenti, sbandati e decadenza urbana. Christmas Card From A Hooker In Minneapolis viene da Blue Valentine (1978), album considerato romantico e sentimentale, come in effetti è (le valentine del titolo sono i biglietti d’auguri inviati dagli innamorati, ma qui, appunto, diventano «blu», il colore della malinconia), sebbene ammantato di toni fatalisti e stropicciate perifrasi jazz, rhythm’n’blues spettrali e accorate epigrafie alla Jack Kerouac. Anche per le prostitute è Natale, dopotutto. E l’ironia? Quella, amara e patetica come in un romanzo hard-boiled, arriva nell’ultima strofa, quando la ragazza ammette a Charley di non avere affatto un marito, ma di essere in prigione, in attesa di ottenere la libertà vigilata. Prevista tra pochi mesi, nel giorno di San Valentino.

https://www.youtube.com/watch?v=STXF9PZkjSQ


QUEST’ANNO

 

sharon jonesSHARON JONES & THE DAP-KINGS
11. Ain’t No Chimneys In The Projects [Daptone, 2015 – dall’album It’s A Holiday Soul Party]

Tempo di album natalizi anche per Sharon Jones e i suoi Dap-Kings, dal 2002 custodi del soul, del funky e del r&b più vintage in circolazione, rigorosamente elaborato tramite equipaggiamenti analogici e fedele al dettato dei dischi targati Chess o Stax, nonché della musica nera come la si confezionava, in quel di Memphis, mezzo secolo fa. It’s A Holiday Soul Party non sarà il loro album migliore ma, ancora una volta, sa divertire e far ballare con un pizzico di nostalgia, bilanciando con la solita professionalità gli elementi di un suono dove lo shout di Aretha Franklin, i velluti di Gladys Knight e i ritmi morbidi di Chaka Khan ballano la stessa, travolgente danza. Jones e accoliti, inoltre, celebrano il Natale senza dimenticarsi di interrogare anche la realtà: Ain’t No Chimneys In The Projects (ripresa per l’occasione da Soul Time! [2011], dov’era apparsa per la prima volta) parla appunto delle condizioni di estrema povertà vissute nei cosiddetti projects – le «case popolari» della New York da cui il gruppo proviene – dai loro residenti, costretti a segregarsi in appartamenti minuscoli, quindi privi di camini, e a raccontare ai propri figli ogni sorta di bugia circa il modo usato da Babbo Natale per entrarvi e lasciare qualche dono. «Non ci sono camini nel ghetto», canta la Jones con rabbia e malinconia, e nemmeno sogni o prospettive. Solo la magia effimera di una notte in cui adulti e bambini, una volta tanto, possono parlarsi alla stessa altezza.


Brian-Setzer-Rockin-Rudolph-featureTHE BRIAN SETZER ORCHESTRA
12. Rockabilly Rudolph [Surfdog, 2015 – dall’album Rockin’ Rudolph]

La storia di Rudolph, la renna dal naso rosso venne creata nel 1939 da Robert L. May, dipendente della catena di empori Montgomery Ward (Chicago), per distribuire ai figli dei clienti degli albi da colorare. Nel volumetto, la giovane renna Rudolph, emarginata da suoi simili a causa del naso rosso e luminoso, si prende la propria rivincita quando Babbo Natale, ostacolato da una nebbia impenetrabile, le chiede di potersi avvalere della sua particolarità per farsi strada nei cieli e riuscire così a rispettare la consegna delle strenne ai bambini di tutto il mondo. May, ex-ragazzino problematico e solitario, aveva inserito nel personaggio di Rudolph tutta la malinconia della sua infanzia personale, riuscendo a donarle un tono lirico e una dolcezza tali da rendere la piccola renna uno dei personaggi natalizi più popolari di tutti i tempi, di stagione in stagione protagonista di programmi radiofonici, corto e lungometraggi, fumetti, canzoni, libri, allestimenti teatrali. Negli anni ’50, il ribelle con chiodo e motocicletta, meglio se dotato di ciuffo alla Elvis e accompagnato dal suono sbuffante del rockabilly, rappresentava lo sradicato per eccellenza, deciso a contrastare fino all’ultimo gli ideali borghesi e familisti della media borghesia. Appare quindi del tutto logico che, per il suo terzo album dedicato (dopo Boogie Woogie Christmas [2002] e Dig That Crazy Christmas [2005]) ai classici natalizi, Brian Setzer – ex-leader degli Stray Cats dal 1990 alla guida di un’irresistibile orchestra alla Cab Calloway – abbia ripreso le vicende di Rudolph ispirandosi in parte al vecchio singolo di Gene Autry (1949), privilegiando le note minori della sua Gretsch e innaffiando il tutto con un ritmo bandistico prelevato da una qualche colonna sonora di un film degli anni ’50: in Rockabilly Rudolph il “pompadour” resiste ancora, il rockabilly continua a scalpitare e il naso rosso di Rudolph resta una garanzia di orientamento e divertimento.


murray-phoenix-1PHOENIX
13. Alone On Christmas Day [Glassnote, 2015 – 7”]

Legami di famiglia. Sofia Coppola – la regista un po’ snob di Lost In Translation (2003) e Bling Ring (2013) – dirige quest’anno, per Netflix, uno speciale natalizio con protagonista Bill Murray. A Very Murray Christmas vede l’attore disperarsi per la tempesta di neve infuriante su New York proprio pochi minuti prima di un suo spettacolo, rispetto al quale si può intuire una desolante assenza di spettatori, ma ecco che, complice qualche bicchiere, un Murray assopito e rasserenato può immaginare lo spettacolo dei propri sogni, con George Clooney, Miley Cyrus, Jenny Lewis e altri amici impegnati a cantare con lui una manciata di classici natalizi. Tra i brani vagheggiati spunta anche, suonato dai Phoenix (Thomas Mars, il loro cantante, è dal 2011 marito della Coppola), Alone On Christmas Day, rarità stagionale firmata Beach Boys e risalente al 1979, quando il gruppo si mise al lavoro su di nuovo album natalizio in seguito abortito (scritto da Mike Love, il brano è tornato a circolare solo lo scorso novembre, col titolo di You’ll Never Be Alone On Christmas Day), in cui Murray e i francesi sono accompagnati da Jason Schwartzmann (attore, nonché batterista dei Phantom Planet), dal direttore d’orchestra Paul Shaffer (per 35 anni responsabile musicale delle trasmissioni dell’amico David Letterman) e da David Johansen, ex-cantante delle New York Dolls qui alle prese con l’alias loungey di Buster Poindexter. La canzone, come spesso accade con i Phoenix, è un intreccio di elegante modernariato pop e sottili ricami psichedelici, ma a renderla spassosa e vagamente surreale ci pensa la voce di Murray (in debito di ottave, diciamo), tra il serio e il faceto, o forse entrambe le cose, allorché, nel finale, domanda ai ragazzi: «E così, voi sapreste anche cucinare?».


cassie_ramone_-_christmas_in_reno_smCASSIE RAMONE
14. Little Saint Nick [Burger Records, 2015 – dall’album Christmas In Reno)

La polacca Cassie Ramone, al secolo Cassie Grzymkowski, ex-chitarrista delle celebrità indie Vivian Girls, da due anni titolare di un’apprezzata carriera solista, sostiene di amare il Natale e le sue occasioni «di trascorrere tempo con amici e familiari». A giudicare però da Christmas In Reno, suo secondo album dopo l’esordio proprietario The Time Has Come (2014), le festività della ragazza assomigliano soprattutto a un intruglio di depressione, spavento, cieli grigi e smisurata solitudine. Ogni traccia del disco (tutto composto di cover) affoga brani altrui in una pozzanghera di sconsolato riverbero dove l’eco della voce dell’artista emerge tramite masticature amare, litanie sfibrate o cori di bambini tanto alieni e fuori posto da risultare disturbanti. Anche un pezzo in origine spumeggiante e gioioso come Wonderful Christmastime di Paul McCartney acquista qui un sinistro alone di fatalismo, i tratti di un flusso di coscienza costruito su memorie, paura e rimpianti il cui scopo sembra quello di ritagliare un brandello minimo di quiete, ancorché fragile, nel sovrapporsi dei dolori e delle nevrosi di ogni giorno. L’esempio più chiaro del trattamento riservato da Cassie Ramone a queste canzoni si trova forse in Little Saint Nick, brano dei Beach Boys datato 1963 (e riletto anche dallo stesso Brian Wilson, dieci anni fa, nel disco natalizio What I Really Want For Christmas) e tramutato in una minuscola sinfonia di speranze e smarrimento, simile alla carola di un tempo perduto, inafferrabile e distante, come ascoltato attraverso un carillon di ricordi sbiaditi.

https://www.youtube.com/watch?v=6nqNIezZy8I


train_tahoe_xmasTRAIN
15. Mele Kalikimaka [Sunken Forest, 2015 – dall’album Christmas In Tahoe]

Prima di trasformarsi in esemplari (beceri) del più scontato AOR, i californiani Train avevano saputo costituire, perlomeno nei primi due album (usciti tra il 1998 e il 2001), una valida e appena più accessibile alternativa al classic-rock dei Counting Crows. A quanto pare, dopo 15 anni se ne sono ricordati anche loro, oggi finalmente titolari di un dignitosissimo Christmas In Tahoe, album natalizio suddiviso tra cover e qualche brano originale. Nell’ambito dei secondi va se non altro segnalato il power-pop travolgente di Shake Up Christmas, scritta con lo specialista Butch Walker, mentre nel contesto delle prime spiccano i rispettosi omaggi alla Band (Christmas Must Be Tonight, in morbida chiave folk-rock), ai Pretenders (2000 Miles) e a Donny Hathaway (This Christmas), nonché quello, poco rispettoso ma spassosissimo, al glam zoticone degli Slade (Merry X’Mas Everybody, con relativo e grottescamente divertente video). Il rifacimento più bello, però, s’intitola Mele Kalikimaka (ossia «Buon Natale» in lingua polinesiana), viene da una composizione dell’autore hawaiiano Robert Alex Anderson e, sebbene non valga le riletture di Jimmy Buffett (Christmas Island, 1996) o Chris Isaak (Christmas, 2006), il suo ciondolante accavallarsi di ukulele e chitarre slide saprà ancora una volta strappare il sorriso di chi, pur amando il Natale e le sue tradizioni, continua in fondo al cuore a fantasticare di spiagge, ghirlande di fiori, atolli incontaminati, serenate marittime e tavole da surf.

ndr: il video della canzone Mele Kalikimaka è stato rimosso da Youtube e da altre piattaforme. Per questo motivo qui sotto trovate il video ufficiale del singolo Shake Up Christmas che fa sempre parte dell’abum Christmas in Tahoe, dove è contenuta anche Mele Kalikimaka.


BONUS: THE COUNTRY EP

 

merle haggardMERLE HAGGARD & THE STRANGERS
1. If We Make It Through December [Capitol, 1973 – dall’album Merle Haggard’s Christmas Present]

Non la più classica delle canzoni natalizie (a meno che la vostra idea del Natale non sia quella di rompervi la testa su cosa raccontare alla famiglia in assenza, dato un recente licenziamento, di regali e festeggiamenti), ma uno degli esempi migliori e più incisivi di quanto il californiano Merle Haggard abbia saputo prendere in mano tutti i luoghi comuni della musica country – la predominanza dei legami familiari, l’orgoglio nazionalista, la difficoltà dei rapporti sentimentali, le condizioni della vita quotidiana – per offrirne una rilettura sempre attenta ai bisogni e alle esigenze delle persone comuni, tanto ruvida e minimale nella forma quanto blue-collar, populista, accorata, combattiva e piena di umanità nello spirito. If We Make It Through December, storia di un operaio appena congedato dal lavoro in fabbrica e perciò afflitto dal timore di deludere i familiari (al punto di augurarsi di superare indenne le festività), apparve per la prima volta, verso la fine del 1973, sul natalizio Merle Haggard’s Christmas Present, e piacque così tanto al pubblico da stazionare per più di un mese ai vertici delle classifiche country. Haggard decise quindi di usarla ancora come tema portante del successivo If We Make It Through December (1974), anch’esso tutto dedicato alle molteplici vulnerabilità della classe lavoratrice, permeato dello squallore e della disillusione dell’America del periodo.

https://www.youtube.com/watch?v=99itWXANxw8


roger millerROGER MILLER
2. Old Toy Trains [Smash Records, 1967 – 7”]

Il texano Roger Miller diventò famoso per le sue cosiddette “novelty-songs” influenzate dalla tradizione country e dal ritmico sbuffare dell’honky-tonk, cantate in mezzo a continui giochi di parole, funambolismi lessicali e slittamenti semantici tenuti assieme da un vocione grave abbastanza simile, sebbene meno cupo, a quello del collega e amico Johnny Cash. Il sostantivo novelty significa «novità», ma anche «stranezza», e le novelty-songs, un tempo molto diffuse (soprattutto nella musica del Regno Unito), erano canzoni satiriche su argomenti d’attualità o fenomeni del momento, talvolta molto ironiche (fino al cinismo) e in altre occasioni, come spesso accade nelle parodie, non troppo distanti dalla radice stilistica di quanto andavano commentando. Se il brano più celebre di Miller è senz’altro King Of The Road, delizioso affresco country-pop sulla vita di un vagabondo innamorato della propria libertà e della conseguente mancanza di legami, spetta forse a questa Old Toy Trains, uscita come singolo nell’inverno del ’67, il titolo di composizione più toccante. Miller la scrive quale pensiero per il figlio Dean, che vorrebbe restare sveglio per vedere Babbo Natale mentre il genitore lo esorta a infilarsi sotto le coperte. Qualche chitarra suonata in modo morbido e qualche armonizzazione vocale alla Everly Brothers: davvero a Miller non serve altro per evocare la tenerezza incondizionata del proprio amore paterno.

https://www.youtube.com/watch?v=4ZYGXWd5Aic


loretta lynnLORETTA LYNN
3. Christmas Without Daddy [Decca, 1966 – dall’album Country Christmas]

Tra i tanti meriti archiviati dalla kentuckiana Loretta Lynn in oltre sessant’anni di onorata carriera, il più importante è probabilmente quello di aver introdotto in ambito country tematiche e punti di vista un tempo reputati assolutamente tabù per il genere. Tra le prime autrici di canzoni nel settore tutto, la cantante seppe parlare in tempi non sospetti di metodi contraccettivi, gravidanze indesiderate e abusi familiari schierandosi dalla parte di una comunità femminile spesso considerata riconducibile, in ambienti country, all’eterna, umiliante diarchia dei ruoli di madre o fedifraga. I suoi brani non mancarono di essere banditi dalla programmazione radiofonica proprio a causa di contenuti reputati controversi (sembra di parlare non di un’altra epoca ma di un altro pianeta), eppure Lynn non smise mai, in nessun caso, di occuparsi di ingiustizie sociali e problemi legati alla condizione economica delle donne. E anche se il mainstream le fu non di rado ostile, il successo di album come questo Country Christmas (1966) e del suo brano forse più celebre e rappresentativo, Christmas Without Daddy (accorato valzer in 3/4 sulla lontananza da casa di un marito di cui non si hanno più notizie, per la costernazione dei suoi bambini), rese testimonianza di quanto bisogno vi fosse, persino nella sfera talvolta ipocrita e bigotta della musica country, di canzoni in grado di rendere viva, sofferta e reale la povertà, le fatiche, i dissensi, le disgregazioni, le amarezze e i drammi quotidiani di tanti nuclei familiari disseminati nella heartland del paese e inghiottiti dalla solitudine.


robert earl keenROBERT EARL KEEN
4. Merry Christmas From The Family [Sugar Hill, 1994 – dall’album Gringo Honeymoon]

Mamma e papà sono sbronzi a forza di mescolare coppe di champagne e bicchieri di latte e brandy. La sorellina arriva col nuovo fidanzato messicano, guardato con sospetto dal resto della famiglia finché non intona Feliz Navidad, sintonizzandosi così sull’atmosfera familiare del resto della casa. Il fratello Ken è qui con i suoi cinque figli e la terza moglie, la quale fuma come una ciminiera, ma tutti, d’altronde, succhiano Marlboro, tracannano margarita e scolano Bloody Mary tanto da rendere necessari periodici rifornimenti dai dettaglianti locali, dove viene acquistata anche la neve artificiale. Fred e Rita sono giunti dal Sud sul loro camper nuovo: collegandosi all’impianto di alimentazione hanno però fatto saltare la corrente, sicché il cugino David è andato alla ricerca di un alimentatore supplementare e ora sono tutti in giardino, in attesa del ripristino delle luminarie. Ecco il Natale disfunzionale raccontato da Robert Earl Keen in Merry Christmas From The Family (dal quarto Gringo Honeymoon [1994]), canzone diventata nel frattempo così popolare da richiedere addirittura un sequel, intitolato Happy Holidays Y’All e dedicato alle successive disavventure dei medesimi personaggi (lo trovate su Walking Distance [1998]). Seppur stravolgendoli al limite dell’autoparodia, il brano prende le mosse dai ricordi dello stesso Keen, cresciuto nell’umidità e nel calore perenne del Texas orientale e pertanto ignaro, fino ai trent’anni, di cosa fosse e come apparisse la neve.

 

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