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Le cento vite di Kim Fowley (1939-2015)

IMPOSSIBILE MA VERO
Le cento vite di Kim Fowley (1939-2015)


Malgrado le pose oltraggiose, la mancanza di rispetto verso qualsiasi luogo comune, il carattere spigoloso, l’inesorabile desiderio di rivalsa, lo stile anticonformista e l’atteggiamento punk, Kim Vincent Fowley, nato a Los Angeles il 21 luglio del 1939, non era un figlio ribelle della classe operaia ma un esteta di estrazione borghese, interessato soprattutto a spingere all’estremo i confini della rappresentazione e della teatralità per farsi una risata, e un bel po’ di quattrini, sull’immaturità e le piccole ipocrisie dello strato sociale da cui proveniva.
Cresciuto in una famiglia di attori (il padre, Daniel Vincent Fowley, era un regular dei film di Charlie Chan, mentre la madre, Shelby Payne, era apparsa nel Grande Sonno di Hawks, accanto a Bogey e Lauren Bacall), Fowley se n’era andato di casa neanche ventenne, dopo esser stato ricoverato qualche mese a causa di una sospetta poliomelite. Aveva conosciuto il mondo di Hollywood e delle celebrità non solo in famiglia ma anche a scuola, dov’era entrato in contatto con eredi di divi, musicisti e produttori, e aveva voluto espugnarlo senza aiuti esterni. Tra gli anni ’50 e ’60 produsse, coordinò o scrisse in prima persona un quantitativo infinito di successi a volte grandiosi e a volte modesti per gruppi regionali e vedette nazionali, complessini amatoriali passati dalle stelle alle stalle e carneadi durati magari per una singola stagione.
Benché le formazioni da lui patrocinate svanissero in fretta, Fowley rimase, si arricchì (grazie ai diritti di edizione) e impose uno stile proprietario, basato in parte sul concetto di novelty-song (ossia le canzoni umoristiche, di effetto comico, diventate un genere autonomo, nei primi del ‘900, presso le case discografiche della Tin Pan Alley newyorchese) e in parte sull’anticipazione di mode e tendenze: i brani del nostro demolivano e frullavano in un nuovo contesto tutte le correnti del momento, mischiando pomposità wagneriane e scioglilingua, sonorità sperimentali e filastrocche, ambizioni orchestrali e assurdità lessicali come in una specie di universo parallelo alla Phil Spector, ma uno Spector affetto da cronico priapismo verbale e acustico. Se i più noti, tra gli assistiti del nostro, furono Paul Revere & The Raiders, le sue fortune mercantili divennero solide grazie a canzoni-barzelletta quali Alley Oop (Hollywood Argyles), Nut Rocker (B. Bumble & The Stingers), Popsicles & Icicles (The Murmaids) e la Papa-Oom-Mow-Mow (The Rivingtons) sulla quale i Trashmen, di lì a poco, avrebbero costruito l’arcinota Surfin’ Bird.
Spostatosi in Inghilterra, Fowley collaborò anche con PJ Proby, con il primo Cat Stevens e degli ancora imberbi Soft Machine, mentre al ritorno in patria seguì personalmente la rentrée discografica di Gene Vincent, uno degli eroi in disgrazia dell’età d’oro del rock, venne affiancato ai Modern Lovers di Jonathan Richman per modellare l’esordio della band, uscito poi nel 1976 (ma il suo lavoro venne occultato fino all’avvento del CD e alle prime ristampe digitali dell’opera), insegnò a Flash Cadillac & The Continental Kids (Herbie & The Heartbeats nel film) come interpretare il popolarissimo retro-rock di American Graffiti (1973), gozzovigliò con John Lennon, cantò per Frank Zappa e, nel breve arco di tempo d’un biennio, mise assieme partecipazioni ai progetti degli artisti più disparati, intrufolandosi con la massima indifferenza nei musical dell’attore Desi Arnaz Jr e nei dischi arroventati dei Blue Cheer, nel grand-guignol glam-rock di Alice Cooper (Welcome To My Nightmare, 1975) e nell’hard cartoonesco dei Kiss (Destroyer, 1976).
Nello stesso anno dell’apparizione con Simmons, Stanley e soci, Fowley diede vita al suo capolavoro (da produttore) combinando cinque ragazze capitanate da Joan Jett (15 anni) per formare le Runaways, gruppo dedito a una rivisitazione heavy di blues, beat e rock’n’roll. Subito celebri in America e Giappone, le Runaways tagliarono i ponti con Fowley entro il 1977, eppure gli anni selvaggi del loro apprendistato, nonché la carica sciamanica del loro pigmalione, si trasformarono in uno dei romanzi più iconici e citati dell’intero rock-biz, al punto da ispirare, nel 2010, The Runaways, biopic di celluloide diretto con poco mordente da Floria Sigismondi e nondimeno provvisto di un eccezionale Michael Shannon nel ruolo, luciferino e su di giri, del produttore californiano. Dopo questa esperienza, tuttavia, il fiuto di Fowley sembrò compromettersi: da un lato non smise mai di vagheggiare e cercare una nuova incarnazione delle Runaways (della cui sigla deteneva la proprietà), dall’altro, pur continuando a mietere qualche tiepido consenso in ambito pop (oltre a finanziare la nascita dei Candy di Gilby Clarke, futuro Guns’n’Roses, raggiunse di nuovo le classifiche con i tasmaniani The Innocents in Australia e con la meteora Steel Breeze negli Stati Uniti), si perse in troppe congetture senza capo né coda, fino a riciclarsi, all’alba del 2000, come filmaker sperimentale coccolato da esegeti visionari e festival microscopici.
Per una panoramica sul Fowley produttore restano imprescindibili i primi due album delle Runaways, l’omonimo del 1976 e il successivo Queens Of Noise (1977), o meglio ancora il doppio The Mercury Albums Anthology (2010), col quale vi portate a casa tutto quel che c’è da sapere sul gruppo, e la bella raccolta della Ace intitolata Impossible But True: The Kim Fowley Story (2003), la più succinta e al tempo stesso la più esaustiva silloge a disposizione di chi volesse esplorare lo stile istrionico, travolgente e sopra le righe, da Tex Avery del rock’n’roll, adottato dal nostro dietro ai cursori (per ulteriori approfondimenti ci sono anche i quattro volumi della serie Lost Treasures From The Vault, approntati dalla Norton tra il 2009 e il 2014, anche se qui, tra gruppi dai nomi tanto improbabili quanto affascinanti quali Vito & The Hands, Yolanda And The Naturals, Knights Of The Round Table, Aston Martin & The Moon Discs o Johnny C & The Blazes, separare la curiosità storica dal pastrocchio puro e semplice è già più complicato).
Altrettanto difficile districarsi nella carriera da titolare, in cui Fowley passò senza soluzione di continuità dalla psichedelia gonzo del surreale esordio (Love Is Alive And Well, 1967) alla produzione schizofrenica del 1968, anno d’uscita di un Born To Be Wild composto da successi funk riletti per organo e miagolii soul ma anche dell’ottimo Outrageous, operazione d’avanguardia dove intrecciò scrosci di blues doorsiano, licantropie alla Captain Beefheart e allucinogene parate di suoni da qualche parte tra Howlin’ Wolf, Merle Haggard e una prefigurazione di Meat Loaf. Dovendo effettuare una scelta, sarebbero da recuperare almeno il blues deragliato di I’m Bad (1972), il r’n’r solenne e melodrammatico di International Heroes (1973), il garage-rock abrasivo di Animal God Of The Streets (1974, miscellanea di brani all’epoca inediti), le esplosioni proto-punk di Living In The Streets (1977) e il concept decadente, a metà strada fra David Bowie e i Roxy Music, di Sunset Boulevard (1978), ma tutto il carnet di Fowley negli anni ’70, seppur di qualità oscillante, si può dire abbia messo in scena un gioco mai scontato con i grandi temi e le grandi melodie della canzone d’autore americana, da George Gershwin a Bob Dylan, rivisitata in un continuo gioco di specchi dissacrante, deformato e gommoso come sarebbe piaciuto a un Brian Wilson strafatto di LSD e innamorato, anziché dei suoi celestiali “pet sounds”, della ferraglia stradaiola di Sonics e Shadows Of Knight. A proposito della capacità di leggere i tempi e sorpassarli in velocità, va citato il peraltro inascoltabile Snake Document Masquerade (1979), distopia sonora tramite cui Fowley preconizzò tutte le atrocità musicali – disco, techno-pop, jazz da salotto etc. – diventate moneta corrente durante gli Ottanta, decennio durante il quale, conscio forse d’aver detto tutto o quasi, preferì rimanere in silenzio (se vi capita, però, mettete le mani su Son Of Frankenstein [1981], delizioso compendio d’elettronica povera in forma di silly-simphony). Nei ’90, in mezzo a una serie di compilation sempre meno interessanti, spuntò qualche progetto nuovo: il grezzo (e un po’ senile) r’n’r di White Negroes In Deutschland (1993), un live con gli scozzesi BMX Bandits, un bel disco di rockabilly-punk notturno e sgangherato realizzato a quattro mani con Ben Vaughn (Kings Of Saturday Night, 1995), ristampe talmente incasinate e frammentarie da renderne la discografia ancor più nebulosa, qualche opera-rock tardo-zappiana e diversi tentativi abbastanza maldestri di riciclare un suono tra hard-rock e sinistre orchestrine di provincia, nonché un immaginario da horror di serie Z, che dopo l’avvento di band come Cramps, Dead Boys, Gun Club, Birthday Party e altri (giusto per limitarsi a menzionare chi a Fowley doveva tantissimo) era invecchiato di colpo. A volte Fowley pareva ancora divertirsi, magari trafficando con l’allora giovane epopea sonora del drum’n’bass (The Trip Of A Lifetime, 1998), oppure auto-dedicandosi un riassunto biografico (Adventures In Dreamland, 2004), ma per quanto si e ci raccontasse di aver trovato nel sound di Bristol l’ennesima palingenesi punk o di essere stato un architetto acustico più importante di Phil Spector, in quegli album poteva essere tutto degno di nota tranne le canzoni, sempre meno ispirate, sempre più difficili da ricordare e amare.
Nel 2011 finì in ospedale per un cancro alla prostata e il riposo forzato lo convinse a scrivere un’autobiografia – Lord Of Garbage («il signore della spazzatura»), uscita nel 2012 per i tipi di Kicks Books – dove, pur fermandosi la cronologia al 1969, venne a galla di tutto: il disprezzo per i genitori (definiti «mestieranti senza talento»), il soggiorno in una casa-famiglia, episodi di prostituzione omosessuale, persino un fulmineo impiego in qualità di addetto al catering per Thelonious Monk. Il libro – la cosa più r’n’r firmata da Fowley negli ultimi trent’anni – riaccese sul personaggio una certa curiosità, tant’è che i Foxygen gli dedicarono un brano, Beyoncé lo volle nel video di Haunted, Little Steven lo chiamò per apparire nella sua trasmissione radiofonica Underground Garage e Ariel Pink gli chiese, ottenendo una risposta affermativa, di poter scrivere assieme alcune tracce del recente Pom Pom (2014). Ma quasi presagisse l’imminenza del decesso, lo scorso settembre Fowley aveva voluto sposare Kara Wright, compagna di una vita, in una cerimonia privata.
Giovedì 15 gennaio il cancro l’ha avuta vinta, portandolo via e rendendo così il mondo un po’ meno originale e squillante. Pare la cosa fosse prevista al punto da convincere il nostro a pianificare, per la seconda parte della sua biografia, un volume postumo.
«La morte», aveva del resto detto, «è il mio prossimo programma a lungo termine».

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