Recensioni

Luther Dickinson, Blues & Ballads – A Folksinger’s Songbook: Volumes I & II

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Blues & Ballads – A Folksinger’s Songbook: Volumes I & II
New West
***½

Luther Dickinson, figlio del produttore (di Memphis) Jim Dickinson cresciuto in mezzo alle espressioni meno adulterate del retaggio culturale e musicale del Mississippi, è sempre stato, anche dal punto di vista della discografia (peraltro già estremamente vasta a dispetto dell’età ancora verde), un musicista dalle fortune alterne e contraddittorie. Ha conosciuto il successo mainstream sia come chitarrista dei Black Crowes sia come anima (assieme al fratello Cody) dei North Mississippi Allstars, ma alle sirene del riscontro commerciale è apparso preferire, negli ultimi tempi in modo inequivocabile, la modestia, la malinconia e il rigore tradizionalista di album ogni volta più estranei al sistema dei consumi e delle superfici.

Blues & Ballads – A Folksinger’s Songbook: Volumes I & II, omaggio alle radici orali e popolari della musica americana d’inizio secolo, se possibile ancor più radicale, profondo e antiretorico dei precedenti Hambone’s Meditation (2012) e Rock And Roll Blues (2014), potrebbe rappresentare il punto di non ritorno della sua propensione a declinare in forma sempre più ampia il tema della memoria acustica: si tratta infatti di un lungo esercizio (21 canzoni per oltre 70 minuti di durata) dedicato alla manipolazione dei suoni old-timey, riletti tramite una deriva di ricordi e soluzioni d’altri tempi quasi a sancire la fine di una certa modalità di raccontare con la musica, quella appartenuta, appunto, ai bluesmen rurali, ai predicatori o ai vagabondi con chitarra dell’America di cent’anni fa.

L’affresco di Dickinson, però, pur mosso dalla stessa nostalgia e dal medesimo scrupolo filologico reperibile (per esempio) nel Ry Cooder di Boomer’s Story (1972), ma senza l’elemento del tex-mex, cerca di introdurre nel proprio programma componenti di dinamismo, rese tali soprattutto dal cospicuo numero di ospiti radunato all’interno del lavoro e, al tempo stesso, dalla loro fedeltà assoluta alle esigenze dei brani, rispetto alle quali sono tutti in grado di trovare un intreccio costante e perfetto.

Le voci femminili (Mavis Staples e Amy LaVere tra le altre), la slide di Jason Isbell, il banjo dell’amico fraterno Jimbo Mathus, la chitarra di Alvin Youngblood Hart o il bassotuba di Paul Taylor scontornano senza soffocarle canzoni il cui obiettivo è quello di materializzare l’atmosfera agreste, arcaica e hillbilly del Sud degli Stati Uniti (più folkeggiante nelle prime dieci tracce, più bluesy nelle altre undici), la cadenza umile e proletaria degli antichi canti di lavoro, la sommessa intensità degli inni elevati durante le funzioni della chiesa pentecostale, l’intrattenimento ingenuo e immediato dei sipari musicali nei medicine show, l’intonazione defaticante delle ballate domestiche suonate da uomini e donne, nella veranda delle proprie case, alla fine di una giornata di sforzi individuali.

Trovi l’articolo completo su Buscadero n. 386 / Febbraio 2016.

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