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Merle Haggard: Sing Me Back Home (1937–2016)

In ricordo di Merle Haggard (1937 – 2016)


Negli ultimi tempi si era avvicinato, decantandone le virtù con tenerezza quasi paterna, alle posizioni politiche del Presidente Barack Obama. «È una persona molto umile», aveva detto, «a differenza di molti degli idioti che l’hanno preceduto, convinti di non aver bisogno dell’aiuto di nessuno».

Proprio lui, per anni e anni considerato una bandiera del Grand Old Party – la compagine repubblicana – di cui era sembrato difendere, fino a schierarsi con sarcasmo e disprezzo contro chi bruciava le cartoline-precetto all’epoca della guerra in Vietnam, persino le posizioni meno digeribili. E se di destra lo è stato, Merle Haggard, morto il 6 di aprile in seguito a un’estenuante lotta con la polmonite, nel giorno del suo 79mo compleanno, presso il ranch di famiglia in quel di Palo Cedro, California, lo è stato senz’altro in senso anarchico, irregolare, spigoloso, convinto prima di tutto della necessità di non perdere mai di vista, e quindi raccontare, cantare, illustrare, il punto di vista della gente comune, delle grandi masse silenziose e appartate cui si vantava, nonostante la fama della propria immagine pubblica, di appartenere.

Odiava soprattutto le élite, il nostro (da tutti conosciuto come Hag), i gruppi sociali votati al prestigio e al privilegio: atteggiamento inevitabile da parte di chi, trasferitosi giovanissimo (dall’Oklahoma) nella California della Grande Depressione e costretto a fronteggiare una crescente solitudine dopo l’improvvisa morte del padre per un’emorragia cerebrale (occorsa nel 1945), aveva passato l’adolescenza tra riformatori e treni agganciati senza biglietto, da hobo delle grandi pianure, nel tentativo di placare i morsi di uno stomaco urlante la disperazione di un orizzonte troppo piatto.

Era stata la madre, a farlo mettere in cella, a provare a correggere il suo impulso ribelle e rabbioso, e anni dopo Hag avrebbe riconosciuto, in una delle sue canzoni più belle e sofferte (Mama Tried, 1968), che Flossie Mae – questo il nome della progenitrice – aveva provato, a volergli bene e a stargli vicino, ma l’ansia di fuggire del musicista era troppo feroce per essere corretta dalle istituzioni. Ci voleva una forza superiore, per convogliare gli aneliti di Hag, e questa, puntuale, si manifestò durante la detenzione a San Quintino, allorché il nostro, assistendo a un indimenticabile concerto di Johnny Cash, seppe d’improvviso quale fosse la sua via e quale sarebbe rimasta, per i sessantanni a venire, la sua unica musa.

Scoperta la propria vocazione, Hag seppe elevare il gesto dei suoi idoli – Bob Wills, Lefty Frizzell, il citato Cash – su altezze rockiste ancora inesplorate nell’ambito della musica country, ricorrendo spesso al supporto di veterani della Telecaster, riuscendo a dar voce al disagio e alla voglia d’intimità dei suoi connazionali senza mai eccedere in stucchevolezze, facendo esplodere (come il collega e conterraneo Buck Owens) la ruvida gradazione honky-tonk delle sue canzoni e affrontando senza peli sulla lingua i temi, allora ben poco frequentati tra Nashville e dintorni, della povertà e dell’emarginazione forzata. Il patriottismo delle sue canzoni, il loro continuo occuparsi di reietti e fuorilegge, derelitti e discriminati, anticipò di svariati decenni la poetica della Smalltown di John Mellencamp, diventando un vero e proprio canone nella descrizione dei sentimenti e dell’orgoglio della heartland americana.

Chitarrista sublime, nonché eccelso violinista, Hag amava l’America delle seconde opportunità: «Sarei rimasto un delinquente a vita se la musica non mi avesse salvato il culo», ebbe a dichiarare in un documentario su di lui trasmesso dall’emittente PBS. «Io sono la prova vivente del fatto che se anche in America le cose non funzionano, queste possono aggiustarsi». Pure lui si era aggiustato, quando, dopo i capolavori degli anni ’60 e ’70 e la flessione creativa (comune a tutte le grandi icone del decennio precedente) degli ’80, era rinato quale icona alternativa in casa ANTI-/Epitaph, aveva iniziato a nutrire forti dubbi sulle scelte geopolitiche dell’amministrazione Bush e si era ritagliato il ruolo di padre severo ma amorevole di tutto il country meno adulterato.

Il suo testamento artistico e umano si trova nel magnifico Django And Jimmie, realizzato pochi mesi fa con l’amico di sempre Willie Nelson, e nel cosiddetto epk promozionale confezionato per promuovere l’album sulle piattaforme digitali, con i due vecchi compari divertiti e sorridenti nel descrivere le virtù terapeutiche (e non solo…) della marijuana, proprio la cara vecchia erba che in Okie From Muskogee (1969) era stata usata quale simbolo di una gioventù incapace di prendersi le sue responsabilità. Ma con l’intelligenza dei grandi e degli artisti veri, Hag non si era mai sottratto alla necessità del cambiamento o del ripensamento, le stesse azioni da lui imposte, trasformandone per sempre regole e costumi, alla musica country tutta.

Vi aspettiamo sulle pagine del numero di maggio del Buscadero per una lunga panoramica sulla vita e sulla discografia, in ricordo di uno dei giganti della nostra musica.

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