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CARTOLINE DA BROADWAY – Il cinema di Mike Nichols (1931-2014)

Nato Mikhail Igor Peschkowsky, il 6 novembre del 1931, nella Berlino di Paul Von Hindenburg (il Presidente del Reich che insignì Adolf Hitler del titolo di Cancelliere), da una famiglia di ebrei russi e tedeschi, Mike Nichols divenne cittadino americano nel 1944, dopo una rocambolesca fuga dalla Germania nazista terminata (era il 1939) nel porto di quella New York City dove il padre, scappato qualche mese prima, avrebbe poi aperto un redditizio studio medico.
Alto, affilato, segaligno, di bocca loquace e intelligente, dotato di quello che Philip Roth avrebbe definito «un lungo naso egizio», Nichols scoprì teatro e recitazione una volta trasferitosi a Chicago per seguire un programma universitario presto trascurato. Se non riuscì a convincerlo a frenare una tendenza all’abbandono scolastico già manifestata altrove, la città dell’Illinois gli consentì di stringere amicizia con Susan Sontag, seguire i corsi di recitazione di Lee Strasberg (fondatore del celeberrimo Actors Studio) e soprattutto fare la conoscenza di Elaine May, componente dei Compass Players (gruppo di cabarettisti di cui fece parte lo stesso Nichols) e dal 1958 sua collega nel duo comico Nichols & May. La coppia, tra gli stand-up comedians del periodo la più cattiva, spassosa e appuntita nel ridicolizzare il conformismo bigotto e la doppiezza della borghesia americana (e, inoltre, dichiarata fonte d’ispirazione per Woody Allen, Steve Martin, Bill Murray, David Letterman e moltissimi altri), divenne così popolare da riempire non solo i teatri di Broadway (sotto la direzione di Arthur Penn), ma persino i negozi di dischi, regolarmente presi d’assalto all’uscita di ogni nuovo LP (in tutto quattro) composto da registrazioni degli spettacoli dei due. Chiusa l’esperienza con May, che sarebbe poi diventata a sua volta attrice, regista e sceneggiatrice nel mondo del cinema, Nichols riprese in mano le regie teatrali e, inscenando Oscar Wilde, i musical di Sheldon Hamick e le commedie newyorchesi di Neil Simon, divenne in breve tempo uno dei mestieranti più richiesti sulla piazza.

Il suo esordio dietro la macchina da presa, infatti, coincise con l’adattamento per il grande schermo di un’opera teatrale di Edward Albee, Chi Ha Paura Di Virginia Woolf? (Whos Afraid Of Virginia Woolf?, 1966), su di un’altra coppia, vera e litigiosissima nella vita reale, come quella composta da Elizabeth Taylor e Richard Burton, nel film protagonisti di un rigoroso gioco al massacro verbale e recitativo diretto da Nichols sfoderando, grazie anche al b/n espressionista, contrastato e magnifico di Haskell Wexler, la geometrica ferocia di un grande metteur en scène.
Con la stessa, fulminea rapidità con cui aveva conquistato Broadway, Nichols, al secondo lavoro, espugnò Hollywood: Il Laureato (The Graduate, 1967), interpretato da un allora sconosciuto e tutt’altro che avvenente Dustin Hoffman (nonché accompagnato dalle canzoni indimenticabili di Simon & Garfunkel), si impose come una delle commedie più spregiudicate, pungenti e tutto sommato amare del periodo, storia non tanto di una ribellione giovanile, come spesso è stato detto, ma dell’illusione di poter ottenere tutto solo volendolo, che valse all’artista il premio Oscar per la migliore regia. Nel 1970 fu la volta di Comma 22 (Catch-22), forse il film migliore del regista, una velenosa satira antimilitarista dallo spirito ferocemente contestatore e dal linguaggio coraggioso, informale e frammentario (dal punto di vista della cronologia degli eventi), in cui trovò spazio persino un divertito, grottesco cameo del decano Orson Welles, mentre due anni dopo, una pellicola altrettanto dura e non riconciliata, benché a tratti molto divertente, quale Conoscenza Carnale (Carnal Knowledge), tratta da una pièce del fumettista Jules Feiffer e per l’epoca assai disinibita nei dialoghi relativi alle esperienze sessuali dei due protagonisti Jack Nicholson e Art Garfunkel (il lungometraggio originò svariati processi a carico degli esercenti che ebbero la temerarietà di proiettarlo nelle sale della Bible-belt), confermò le doti Nichols nel campo della direzione d’attori e nell’arte di intercettare il gusto del pubblico attraverso continue, mai gratuite provocazioni e sfide intellettuali.

Tutto sbagliato, al contrario, uscì il successivo Il Giorno Del Delfino (The Day Of The Dolphin, 1973), fantapolitica di quart’ordine con uno spaesato George C. Scott, e ancora peggio andò alla black-comedy Due Uomini E Una Dote (The Fortune, 1975), così malriuscita, sgangherata, posticcia (nel ricreare quelle atmosfere da Grande Depressione in cui era specialista Peter Bogdanovich), lontana dalle corde metropolitane del nostro e, particolare di non poco conto, rovinosa al botteghino, da convincere il regista a un momentaneo divorzio dalla celluloide. Nichols tornò quindi a teatro, produsse serie televisive di un certo successo, si dedicò all’allevamento degli amati cavalli e diresse gli show teatrali di alcuni comici emergenti (tra questi, la Gilda Radner di Saturday Night Live, poi moglie di Gene Wilder, e l’allora logorroica e travolgente Whoopi Goldberg), finché sulla sua scrivania non arrivò una sceneggiatura firmata da Nora Ephron e ispirata alla vicenda di Karen Gay Silkwood, sindacalista in un impianto nucleare dell’Oklahoma morta nel 1974, quando era in procinto di consegnare importanti rivelazioni circa la sicurezza sul proprio posto di lavoro al New York Times, in un incidente stradale piuttosto sospetto (nel 1979, dopo un processo durato sei anni, la Kerr-McGee, corporation presso la quale l’attivista lavorava, fu condannata a risarcirne i figli con più di un milione di dollari): Nichols, avvalendosi di una Meryl Streep di straordinaria bravura, ne trasse il solido Silkwood (1984), dramma civile forse non memorabile e tuttavia utile nel sintonizzarlo di nuovo coi favori del grande pubblico, ancora dalla sua parte anche in concomitanza con l’irrisolto, petulante Heartburn Affari Di Cuore (1986), di nuovo scritto dalla Ephron (stavolta ispirandosi alle proprie vicissitudini matrimoniali con Carl Bernstein, uno dei giornalisti del Washington Post che scoperchiarono lo scandalo Watergate), altro buon successo al botteghino (come del resto il suo tema musicale, la Coming Around Again di Carly Simon) benché film troppo parlato, troppo blando nel ritmo, forse troppo vituosistico nelle interpretazioni della Streep e di Jack Nicholson per toccare davvero.
Fu invece incantevole, nonostante la penalizzazione dell’orrido titolo italiano, Frenesie Militari (Biloxi Blues, 1988), una specie di Full Metal Jacket nostalgico, amabile e con una punta di malinconica tenerezza derivato da uno spettacolo di Neil Simon (uno dei massimi riscontri teatrali di Nichols, del resto, era stato, nel 1971, adattamento della commedia simoniana Prigioniero Della Seconda Strada foriero di uno dei tanti Tony Awards vinti per la miglior regia e quattro anni dopo portato al cinema da Melvin Frank), anche migliore, sempre nello stesso anno, del più fortunato Una Donna In Carriera (Working Girl), piccolo dramma rosa non abbastanza appuntito per raccontare con esattezza l’arrivismo e la mancanza di scrupoli degli anni, e del carrierismo rampante, che vorrebbe stigmatizzare. Lo stesso difetto, a dirla tutta, dei posteriori Cartoline DallInferno (Postcards From The Edge, 1990), tratto dalla biografia dell’attrice Carrie Fisher (la principessa Leila di Guerre Stellari, passata in pochi anni dalla fama planetaria alla tossicodipendenza e a carrellate di esaurimenti nervosi) e salvabile giusto per l’istrionismo dei duelli comunque un po’ stucchevoli tra le protagoniste Meryl Streep e Shirley MacLaine, e A Proposito Di Henry (Regarding Henry, 1991), melodramma sin troppo facile e lacrimevole (sceneggiato dal JJ Abrams di Lost) ma giustificato dal pregio di una misura d’altri tempi, ottenuta da Nichols tramite la scelta coraggiosa di citare modelli di stile inattuabili (e inarrivabili) quali Douglas Sirk e George Cukor. Due film insomma modesti, senz’altro antiquati, eppure non pessimi quanto l’insalvabile Wolf La Belva È Fuori (1994), tremendo pasticcio nello script purtroppo firmato, ricorrendo a una cateratta di riferimenti psicanalitici da quattro soldi (da Wilhelm Reich a Erich Fromm), dall’altrove ineccepibile romanziere Jim Harrison e mai reso meno fastidioso (anzi, semmai ancor più snaturato) dalla pur lussuosissima confezione (musiche di Ennio Morricone, luci di Giuseppe Rotunno, effetti speciali di Rick Baker).

Due anni più tardi, il colpo di coda: affidata alla sodale di un tempo Elaine May la trasposizione della commedia franco-italiana Il Vizietto, grazie alla sceneggiatura a orologeria di Piume Di Struzzo (The Birdcage, 1996) Nichols riuscì a sfoderare per l’ennesima volta i tempi comici perfetti, l’amarezza temperata e la partecipazione umana del grande regista, e scovò non solo una scenografia naturale – un pezzo di Florida color rosa fenicottero – a dir poco perfetta, ma riuscì anche a distillare il meglio da attori non proprio noti per la personale malleabilità (Robin Williams e Nathan Lane nei panni della coppia gay, ancorché simpatici, non valgono gli originari Ugo Tognazzi e Michel Serrault, ma il cameriere Hank Azaria e il sorprendente Gene Hackman, senatore ultrareazionario per il quale «Il papa è troppo controverso, il vescovo Marcinkus troppo moderato», sorreggono il film).
Non seppe essere altrettanto incisivo, malgrado l’identico team regista/sceneggiatrice e una colonna sonora invero molto evocativa di Ry Cooder, I Colori Della Vittoria (Primary Colors, 1998) resoconto abbastanza romanzato della prima campagna elettorale, targata 1992, di Bill Clinton (con John Travolta nei panni del Presidente passato alla storia per l’uso improprio dei sigari e Emma Thompson in quelli della first lady in pectore), di continuo indeciso tra satira in ogni caso abbastanza edulcorata e riserve di correttezza politica, e nondimeno sembrò un capolavoro se paragonato al consecutivo Da Che Pianeta Vieni? (Which Planet Are You From?, 2000), farsaccia dalle gratuite premesse fantascientifiche che avrebbe forse voluto recuperare lo spirito contestatore di trent’anni prima e invece riuscì solo a procurare imbarazzo ai (pochi) spettatori. La forma altalenante di Nichols, in questi anni, era da attribuirsi a un progressivo disinteresse nei confronti del cinema stesso, dal nostro ritenuto meno suscettibile di sperimentazioni e ripensamenti rispetto al formato più agile del film televisivo, campo nel quale diresse le opere migliori del suo ultimo periodo, entrambe prodotte dalla HBO, ossia l’accorato, straziante La Forza Della Mente (Wit, 2001), da lui anche co-sceneggiato con la protagonista Emma Thompson, su di una professoressa di letteratura inglese colpita da un cancro alle ovaie e perciò costretta a un non facile bilancio della propria esistenza, e il monumentale Angels In America (2003), miniserie di 352 minuti tratta dall’omonima pièce di Tony Kushner (vincitore del Pulitzer) e ambientata nella New York di metà ’80, terrorizzata dal proliferare dell’Aids.
A dispetto del successo, e delle canzoni di Damien Rice (poi diventate proverbiali) in colonna sonora, Closer (2004), con Julia Roberts, Clive Owen, Natalie Portman e Jude Law intenti a latrarsi addosso le reciproche insofferenze e i multipli adulteri, non riuscì a rendere espressivo l’intreccio tra il soggetto molto malizioso e compiaciuto del commediografo Patrick Marber e la regia di Nichols, cui non sarebbe evidentemente dispiaciuto replicare la claustrofobia e il rigore di un dramma da camera alla Mankiewicz, e La Guerra Di Charlie Wilson (Charlie Wilsons War, 2007), nel suo ritrarre un deputato texano (Tom Hanks) in solitaria e grottesca lotta contro l’Unione Sovietica (negli Ottanta oppositrice, per dieci lunghi e sanguinosi anni, dei mujaheddin nazionalisti in Afghanistan), apparve quasi una sorta di regressione politica (davvero incredibile per uno dei registi più liberal di sempre). Ma si tratta di due pellicole che Nichols diresse quasi controvoglia, tra una pausa e l’altra dalle sue più recenti occupazioni: i frequenti interventi in rete (fu blogger tra i più rispettati dell’Huffington Post americano), le lezioni di recitazione e regia al New Actors Workshop di New York (fondato nel 1988, lo stesso anno del matrimonio, l’ultimo di quattro, con la conduttrice del network ABC Diane Sawyer), allestimenti da Harold Pinter e Arthur Miller (Morte Di Un Commesso Viaggiatore, due stagioni fa, con il defunto Philip Seymour Hoffman nel ruolo di Willy Loman). Il cinema, per lui (e a volte per noi), era diventata una cosa troppo ingombrante, poco fresca, difficile da manipolare, aggiornare, rivitalizzare o riqualificare con la spontaneità e la libertà di manovra garantitegli dal teatro.

Eppure, se oggi, all’indomani della morte, dell’infarto che lo ha colpito nel suo appartamento di Manhattan, il 19 di questo mese, all’età di 83 anni, lo ricordiamo con affetto e gratitudine, è proprio per i suoi film, per le sue pellicole libere e caustiche, per la sua capacità di biasimare il dolore della vita e l’ipocrisia della società non facendosi mai mancare un sorriso triste o la soddisfazione di una fuga improvvisa come quella del giovane Benjamin Braddock nel finale del Laureato, dietro all’autobus dove si riprenderà la sua fidanzata. Perché è anche grazie ai film di Mike Nichols, alla loro capacità di saper essere adulti e giocosi nello stesso istante, se la New Hollywood degli anni ’70 è riuscita a stravolgere i temi, i canoni e le fisime del cinema americano.
È anche grazie a lui se il cinema di quegli anni è riuscito a ragionare su se stesso e sulle proprie convenzioni, diventando, almeno per un decennio, un’oasi di cultura, inquietudini e modernità dove tutto era possibile.

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