Recensioni

Peter Wolf, A Cure For Loneliness

PeterWolf_ACureForLoneliness_RGBPETER WOLF
A Cure For Loneliness
Concord
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Ci ha abituato bene Peter Wolf, ex leader e voce della gloriosa J.J Geils Band, la band che fu definita i Rolling Stones d’America, da un po’ di tempo ci regala dischi preziosi che stanno al passo col tempo pur rifacendosi alla musica del passato, una canzone d’ autore permeata da quel romantico rock urbano di cui è specializzata la East Coast americana.

Nativo del Bronx ma residente a Boston, Peter Wolf si è costruito una carriera solista di tutto rispetto anche senza astronomiche cifre di vendita, basta citare gli ultimi due dischi in ordine di tempo, Sleepless del 2002 e Midnight Souvenirs del 2010, per rammentare la brillante scrittura di Wolf, la sua innata capacità nel creare canzoni di fine artigianato in cui la sua profonda conoscenza musicale è al servizio di un rock che taglia e rincuora, teso e scuro a volte, romantico e crepuscolare altre.

Non è un nostalgico Peter Wolf anche se la sua vita lo consentirebbe, visto l’ingombrante passato alle spalle con avventure spesso sul filo del rasoio, e lo dimostra in questo incantevole A Cure For Loneliness dove si ritrova settantenne ad esaminare il punto in cui è arrivato senza rimpiangere i giorni andati. In Some Other Time, Some Other Place, una dolce ballata scritta assieme a Will Jennings, coautore di molti brani dell’album, impreziosita dal violino, dalla lap steel e dalla chitarra acustica di Larry Campbell, canta in una atmosfera che rasenta il folk: l’estate è andata e non c’è più nessuno attorno, la spiaggia è vuota e i negozi sono chiusi, per poi aggiungere quando qualcosa finisce, qualcosa incomincia. E allo stesso modo nei versi di Rolling On, altra malinconica ballata con cui si apre A Cure for Loneliness, segnata dal raffinato pianoforte dell’onnipresente Kenny White, co-produttore del disco, “non intendo scomparire e nemmeno lasciare che il mondo mi passi sopra”.

È appropriato il titolo dell’album, una cura per la solitudine, perché queste dodici canzoni servono a far accettare la vita e il tempo in modo più sereno sortendo l’effetto di quando si incontra un amico con cui nel passato si sono divise scelte e storie e adesso si è disposti ad ascoltarsi e ricordare, con piacere e disincanto. C’è malinconia nelle canzoni ma anche quella matura e pacata accettazione del destino e del tempo che solo un settantenne che ha vissuto intensamente può avere. Brani come Some Other Time, Some Other Place e Rolling On sono insieme mistici e agrodolci, non cedono alla rassegnazione, anche se oggi i modi musicali di Wolf sono più improntati verso la ballata intimista e i toni morbidi del rock che verso le parole taglienti rock e l’arrembante R&B di gioventù.

È subentrata la calma dell’età, espressa in ballate per nulla zuccherose, piuttosto memori di quanto facevano gli Stones tra gli anni 70 e 80 con le melodie, oppure la specialità di Willy DeVille quando parla d’amore nel ghetto o Boz Scaggs quando reinventa il soul o l’originalità che ha John Hiatt quando immerge le sue ciondolanti storie in un mood dove non si capiscono i confini tra soul, blues, country e rock. Il country è un po’ una novità per Peter Wolf, anche se Midnight Souvenirs finiva con un duetto con lo scomparso Merle Haggard, il nostro ha solitamente avuto più confidenza con le tensioni elettriche urbane, qui pesca però un hit country del 1974 di tale Moe Bandy, It Was Always So Easy (To Find An Unhappy Woman), aggiungendoci però una chitarra spudoratamente rock (il bravissimo Duke Levine) e un organo e un’armonica da Dylan di Highway 61 Revisited.

E poi c’è Tragedy (nulla a che spartire con l’omonima canzone con cui si apriva Midnight Souvenirs) tenue country ballad di Thomas Wayne del 1959 e pure Love Stinks,noto titolo della JJ Geils Band, qui rimpastato bluegrass e portato a nuova vita. La conoscenza enciclopedica di Wolf permette simili chicche, e lo stesso lo si può dire per It’s Raining scritta con Don Covay, che nelle intenzioni avrebbe dovuto essere un duetto con Bobby Womack se il famoso soulman non fosse deceduto prima di entrare in studio di registrazione. La canzone è un’ode soul alla perseveranza, so che il sole arriverà dopo la tempesta, canta Peter Wolf accompagnato da una sezione fiati che fa molto Memphis anni sessanta.

Diversa è Wastin’ Time che possiede lo stile della ballata rock da antologia, è romantica da morire tanto da sembrare la sorella di Waiting On A Friend degli Stones di Tattoo You. È proposta in versione live, scelta strana per un album altrimenti di studio. In Fun For A While invece, Wolf assalito dalla malinconia, canta: nessuno ci poteva fermare allora, non voglio tornare indietro ma sarebbe bello farlo per un attimo, e attorno è un ricamo di lap steel, fisarmoniche, chitarre, tastiere. How Do You Know paga pegno al blues, grande amore di Wolf fin dagli inizi, ed è un boogie che porta John Lee Hooker nelle terre cajun mentre il pianoforte di White rallegra il viaggio. Peace of Mind è come il titolo, rappacifica con sé stessi e il mondo e Stranger chiude il disco in punta di piedi, solo voce e chitarra.

Accompagnato da ottimi musicisti, oltre a quelli già menzionati mi va di segnalare il raffinato chitarrista Kevin Barry, Peter Wolf dimostra di saper invecchiare con dignità esponendo la sua personale cura per la solitudine, una cura che non ha controindicazioni ed effetti secondari perché anche se il suo rock si è fatto più crepuscolare e morbido non ha perso una virgola in passione, eleganza, romanticismo. Di dischi così non se ne trovano più.

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