foto: Cristina De Maria

In Concert

Ryley Walker live a Marina di Ravenna, 17/09/2015

Lo stupefacente successo critico di Primrose Green, opera seconda del chicagoano Ryley Walker dopo l’interessante seppur acerbo All Kinds Of You (2014), ha quest’anno dimostrato quanta fame ancora ci sia, nonostante tutti gli spappolamenti estetici degli ultimi anni, l’esondazione di correnti post-qualcosa e il rincorrersi di dichiarazioni sulla morte di uno, due o più canoni musicali del ‘900, di belle canzoni, forza comunicativa e poetiche non solo digeribili ma, come nel caso di quella naturalista e hippie dell’interessato, una volta tanto aliene a qualsiasi forma di nichilismo.

Una precisazione forse non superflua, perché senza di questa, per quanto mi riguarda, risulterebbe altrimenti inspiegabile l’indulgenza fin qui registrata verso un disco indubbiamente riuscito ancorché non trascendentale, stimolante e curioso nel ricorso a un idioma – quello del folk psichedelico intessuto di ragas dei vari Fred Neil, Tim Buckley e Tim Hardin – per diverse stagioni sepolto sotto il peso della sua stessa obsolescenza e tuttavia non ancora supportato da una scrittura all’altezza, rigoroso e avventuroso nel ricorrere a tempi, ritmi e propensioni al ricamo strumentale non proprio in linea (per fortuna) con la produzione corrente e ciò nonostante ancora in cerca di brani appena un po’ meno derivativi. Siccome, però, la musica è molto spesso assai meno schematica e prevedibile di chi l’ascolta, è stata invece una bellissima sorpresa constatare come Walker si sia rivelato capace di superare la prova dal vivo con un’espressività, un dinamismo e una carica di gran lunga superiori a quelle incise sull’album poc’anzi citato.

Reduce da un’altra (notevole) esperienza discografica, ovvero quel Land Of Plenty realizzato a quattro mani con Bill Mackay e dedicato a una magnifica serie di improvvisazioni chitarristiche à la John Renbourn, Walker si è presentato sotto la tettoia del bagno ravennate Hana Bi imbracciando un’antidiluviana Guild acustica (negli ultimi due pezzi dell’esibizione sostituita da una 12 corde della stessa marca) e facendosi accompagnare da tastiera, sei corde elettrica, batteria e contrabbasso. Quanti temevano una possibile involuzione dei movimenti in forma libera affiorati su disco verso sonorità ancor più disorganiche e dispersive sono stati subito messi a tacere dall’ampio spettro di un folk acido che dal vivo si è ingigantito, ha acquistato volume, ha guadagnato estensione, ha saputo alternare scosse violente e pause di rarefazione fino a evocare, in più di un’occasione, il misticismo epico e la spiritualità r&b del Van Morrison degli anni ’70. Walker ha preso il folk tradizionale (di Jackson C. Frank? di Tom Rush? scegliete voi, non è importante) come uno specchio d’acqua nel quale lasciar circolare senza soluzione di continuità onde sempre più alte, fluttuazioni sussultorie dov’è stato possibile di volta in volta intravedere il jazz modale del Miles Davis delle stagioni elettriche, il respiro soul e le tecniche sperimentali di John Martyn, il folk ruvido e impressionista del collega Daniel Bachman (i due hanno collaborato nell’ottimo Of Deathly Premonitions [2011], purtroppo esaurito da tempo).

Due pezzi nuovi, per cominciare, di cui il secondo – una perla di maratona elettroacustica intitolata The Roundabout – non sarebbe dispiaciuto ai primi Pentangle se questi fossero stati americani anziché britannici, e poi altre cinque canzoni, bis compreso, per una durata complessiva intorno ai 90’, quindi con una dilatazione media dei singoli brani verso i 12 minuti. Nei lunghi saliscendi di Primrose Green – la canzone – è apparso il fantasma di Jerry Garcia a indicare il profilo frastagliato di un’America costruita sulla mescolanza di essenze country, ripetizioni lisergiche, accensioni grintose e deragliamenti jazz, mentre dal lato opposto, le evocazioni pastorali dell’ormai classica On The Banks Of The Old Kishwaukee hanno coinvolto tutti gli spettatori nella metafisica di un lontano gospel della provincia, tra arcaiche visioni battesimali e un inarrestabile flusso di note di continuo incrementate per numero e velocità. Il momento più evocativo, però, è arrivato con una cover, tratta proprio dal repertorio di Van Morrison, una Fair Play (dall’inarrivabile Veedon Fleece [1974]) tutta giocata su sospensioni, accelerazioni e galleggiamenti, cantata da Walker come in preda a una specie di rapimento interiore e attraversata dal batterista strofinando le bacchette sui tom col palmo delle mani, una divagazione astrale sospesa tra rallentamenti psych e il rapido insinuarsi degli altri strumenti per dare vita a un contrappunto d’intensità quasi paralizzante.

Walker è apparso certamente più estroverso del cowboy di Belfast, e non ha smesso per un solo minuto di lodare la bellezza dell’ambientazione, la solennità dei castelli italiani e la praticità degli Autogrill (nientemeno) con un’entusiasmo impensabile per il Van Morrison di ieri e di oggi. Eppure, a giudicare dal suo concerto, è comunque riuscito a raccoglierne almeno in parte l’eredità, finora (quasi) mai gratificata da epigoni attendibili. Ma non è questa la sede per elevare un monumento a Van Morrison, che monumento lo è già. Meglio decantare ancora le doti, la visione e l’immedesimazione totale di Ryley Walker, che monumento, se andrà avanti per questa strada, potrà senz’altro diventarlo.

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