Recensioni

The Charlie Daniels Band, Million Mile Reflections

The Charlie Daniels Band, Million Mile ReflectionsTHE CHARLIE DANIELS BAND
Million Mile Reflections
Epic / Sony

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Ridurre l’estro del compositore, violinista e chitarrista Charles Edwards “Charlie” Daniels al solo declinare della qualità media della sua produzione discografica, o all’inasprirsi reazionario delle sue discutibili posizioni politiche (che nel corso degli anni l’hanno visto sostenere la giustizia fai da te, l’invasione dell’Iraq pianificata dallo staff di George W. Bush e persino il creazionismo a discapito dell’evoluzionismo), significherebbe commettere un errore di prospettiva, perché il musicista, nei momenti migliori, altro non ha fatto se non allargare definitivamente i margini ormai sbriciolati della vecchia tradizione del Sud, rielaborandola con rabbia, vitalità, sconforto e originalità in fondo degne degli Allmans o dei Cream.

Caratteristiche ancora oggi visibili, e apprezzabili, grazie alle attuali ristampe dei suoi lavori realizzati sotto l’egida Epic, in pratica l’integrale delle registrazioni del nostro comprese tra la prima metà degli anni ’70, quando Daniels aveva già scritto brani per Elvis Presley, collaborato con Bob Dylan e prestato il suo violino alle opere maggiori della Marshall Tucker Band, e la rescissione del lungo contratto avvenuta nel 1971.

A differenza di quanto accaduto con i nove album compendiati nei tre volumi (doppi) della serie The Epic Trilogy, Million Mile Reflections, il decimo disco in studio della formazione uscito in origine nel 1979, viene ripubblicato da solo, in versione singola, senza alcuna aggiunta al di là di una discreta ripulitura dei suoni. Scelta forse dovuta al fatto di contenere The Devil Went Down To Georgia, indiavolato up-tempo bluegrass sulla disfida tra il diavolo e un giovane violinista del Sud (che sfugge il rapimento della propria anima suonando da virtuoso i classici della sua terra d’origine) contenente multiple e trascinanti citazioni di traditional appalachiani, di balli popolari e di una pietra miliare del blues, la House Of The Rising Sun resa immortale dagli Animals di Eric Burdon.

Al di là però del brano in questione, senz’altro il più celebre in tutta la carriera dell’ottantenne musicista di Wilmington, North Carolina, Million Mile Reflections, anche a distanza di trentasette anni, non pare essere l’album più indicato a mostrare le virtù del suo gruppo, perché a differenza dei precedenti Te John, Grease & Wolfman (1972), Fire On The Mountain (1974), Nightrider (1975) o High Lonesome (1976), tanto per restare nell’orbita dei titoli da possedere assolutamente, le sue intuizioni assomigliano a una rimasticatura non sempre convincente di idee già espresse (meglio) altrove. Persino l’ultima Rainbow Ride, lunga apoteosi delle tastiere di William “Taz” Di Gregorio condotta tra cambi di tempo, improvvisazioni, ascese sonore, break tradizionalisti e scosse quasi hard utili a renderla un paradigma del suono della band, strappa il sorriso ma resta ben lontana dall’intensità di vecchie cavalcate quali Black Autumn, No Place To Go, Funky Junky o Billy The Kid.

Recuperate quelle, se ancora vi mancano, e solo dopo regalate un’opportunità a Million Mile Reflection: capirete meglio per quali motivi, se il rock sudista, anziché restare in eterno ormeggiato al richiamo talvolta sordo delle radici, ha cominciato a frantumarsi per diventare aperto, centrifugo e problematico, lo si debba anche a Charlie Daniels e ai suoi «ragazzi».

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