The Grateful Dead, 1971

Speciali

The Grateful Dead: Sunshine Daydreamers

I Grateful Dead non si sono chiamati Warlocks solo perché, nello stesso periodo, il nome veniva usato sulla sponda atlantica da quelli che sarebbero poi diventati i Velvet Underground. Mentre Lou Reed e soci congegnavano il modo migliore per dare vita sonora agli incubi e alle perversioni dei sotterranei di New York City, nelle pizzerie e nei piccoli locali dei sobborghi residenziali della California affacciati sul Pacifico iniziava invece a esibirsi un gruppo di capelloni, conosciutisi nella Bay Area di San Francisco, destinato a trasformarsi in uno dei simboli più duraturi (e redditizi) di tutta la controcultura americana dei Sessanta. Era il maggio – mese cruciale per le rivoluzioni – del 1965: esattamente cinquant’anni fa.


L’ARCOBALENO DELLA GRAVITÀ

[…] Amati e odiati, snobbati e spernacchiati dalla critica (molti li accusavano di non possedere un grammo di groove), ai giorni nostri ancora oggetto di attacchi velenosi al limite dell’insulto (solo qualche mese fa Joe Queenan, collaboratore del Wall Street Journal, ha definito quella dei Dead «pignola, floscia, pomposa, svenevole, inanimata, banale, autoindulgente musica per fattoni, il relitto imbarazzante di un’era scomparsa», specificando poi di «detestarli», nel caso non si fosse capito, «perché non sapevano suonare veloci»), venerati da legioni di fedelissimi – i celeberrimi deadheads– e disprezzati da segmenti altrettanto cospicui di ascoltatori, Jerry Garcia e soci restano il tipico esempio di gruppo destinato, inevitabilmente, a dividere il pubblico.
Bill Clinton li apprezzava, Barack Obama no. Nancy Pelosi sì, Joe Biden no. Ma qualsiasi nefandezza gli si possa attribuire (da un certo punto in poi, la testardaggine di Bob Weir nel vestire quasi sempre calzoncini e polo a maniche corte è diventata senz’altro un crimine contro l’umanità), i Dead restano tra i simboli più caratteristici dell’epoca della controcultura degli anni ’60,imprescindibili in qualsiasi discorso sul rock acido e sulle filosofie libertarie dell’America di quel periodo. E forse non solo di quello.


EAST/WEST

Si può guardare ai Grateful Dead da un punto di vista sociologico, come fa Simon Reynolds – un esperto delle relazioni tra censo e gusti musicali – in Retromania (ISBN Edizioni, 2011, pp. 480, € 23), enfatizzandone la capacità di aggregare un pubblico eterogeneo e analizzando i meccanismi alla base dei comportamenti, e della fidelizzazione, della loro «tribù». Ma il rischio, se si scrive un articolo anziché un libro (e se non ci si chiama Simon Reynolds), è quello di generalizzare in modo grossolano le abitudini di milioni di estimatori diffusi – è vero – in tutto il mondo, e tuttavia difficili da comprendere appieno, nei rituali e nella prassi da archivisti, al di fuori della cultura americana.
Qui in Europa, i Grateful Dead hanno di certo avuto successo come emblemi del movimento hippie, arrivato al solito con qualche anno di ritardo, nonché come colonna sonora ideale per lunghi viaggi “oppiacei” (peculiarità di volta in volta attribuita a John Coltrane, Talking Heads, Pink Floyd, Tangerine Dream, John Martyn, Michael Hedges e altri: le preferenze dei consumatori di canapa mi sembrano abbastanza trasversali). Una delle storielle più raccontate del rockbiz riguardava appunto un fan incallito dei Dead che, recatosi a un loro concerto privo dell’abituale scorta di fumo e, quindi, per la prima volta in grado di ascoltarli a mente lucida, alle prime note dell’esibizione esclamava: «Cristo, questi fanno veramente schifo!». La critica, anche italiana, ha visto nella parabola dei Dead, passati dalle sciamaniche jam della seconda metà dei ’60 alle più disciplinate «canzoni» dei decenni successivi, una metafora della regressione politica degli States dal «sogno» kennedyano alla restaurazione prima imposta da Nixon e poi confermata da Ford e Reagan. Nondimeno, quella di sovrapporre l’orientamento politico di una nazione alle idee dei suoi musicisti non è solo una forma di miopia, bensì un vero e proprio errore prospettico, il motivo per cui, dagli anni ’70 in poi, rock, canzone d’autore e musiche tradizionali provenienti dall’America, al contrario di punk e jazz, hanno subito un ostracismo ingiustificato (e pazienza se i Ramones, amatissimi da chi scrive, erano molto più reazionari di Willie Nelson, o se Patti Smith, da me idolatrata, era assai più clericale di quanto non lo sia mai stata Linda Ronstadt) e in molti casi del tutto arbitrario (non mi riferisco alle inclinazioni personali). Certo, i Dead che vanno dall’omonimo The Grateful Dead (1967), esordio interessante benché compromesso dalle ingerenze di un’industria discografica già satura dei cosiddetti «campioni» del rock psichedelico, al fenomenale Live/Dead (1969), doppio album dal vivo carico di assoli, improvvisazioni chilometriche e flussi rivoluzionari di suono e rumore, possono sembrare, rispetto ai compassati esecutori dei lirici affreschi country-rock di Workingman’s Dead e American Beauty (entrambi targati 1970), un gruppo diverso, o almeno così è stato detto e ripetuto sovente.
Però. Al di là dell’abbigliamento da straccioni, delle barbe e dei capelli lunghi, della confidenza con tutte le più potenti droghe reperibili nella zona portuale di San Francisco, quando i chitarristi Jerry Garcia e Bob Weir, il tastierista Ron “Pigpen” McKernan, il bassista Phil Lesh e i due batteristi Bill Kreutzmann e Mickey Hart si uniscono per la prima volta, a legarli è il comune interesse per svariati generi di musica, non la reciproca inclinazione allo sballo. Nei loro interminabili mantra sonori si trovano, rimescolati in una progressione ipnotica e personale, jazz e classica, folklore indiano e improvvisazione contemporanea, psych-rock e blues sbilenco – un’alchimia che l’assunzione di LSD contribuiva magari a espandere, negli effetti, ma non certo a creare. Musicisti colti e per nulla scontati, i Dead incollano le fonti d’ispirazione più disparate, dallo sheet of sound di Coltrane (evidentissimo nelle evoluzioni della sei corde di Garcia) ai raga dell’estremo oriente, dal bluegrass (anch’esso lampante nel fraseggio dilatato del barbuto chitarrista) al doo-wop, per ottenere trasfigurazioni in cui il mezzo (ovvero il suono), per dirla alla McLuhan, è il messaggio (il piacere di suonare), assumendo la fuga dalle leggi di mercato, dalle ideologie, dalla nevrosi delle grandi città, dalla società industriale, come conseguenza e non come premessa.
Dietro al gruppo c’è la speranza della frontiera, l’Ovest da riconquistare allo scopo di edificarvi un nuovo Eden allucinogeno e profumato d’incenso; davanti a loro ci sono la vita comunitaria e il sogno pacifista del movimento hippie come punto d’arrivo inevitabile dell’utopia di riassumere in una jam tutti i suoni, le tradizioni e gli stati d’animo del mondo. Certo, negli esperimenti acidi di Anthem Of The Sun (1968) e nell’onirico canovaccio del successivo Aoxomoxoa (1969) c’è la colonna sonora dei viaggi nella psiche, delle sofferenze e delle liberazioni, della contestazione all’establishment allora scelta da moltissimi giovani quale possibile ragione di vita, ma soprattutto nel secondo iniziano a sbucare anche imprevisti riferimenti al ragtime e alle musiche hawaiiane il cui scopo sembra proprio quello di proporre le traiettorie strumentali di «Captain Trip», com’era affettuosamente soprannominato Garcia, alla stregua di una delle tante diserzioni disponibili (peraltro rivolta al passato), non l’unica né la più efficace. Dopo l’allontanamento del tastierista elettronico Tom Constanten, allievo di Berio e Stockhausen probabilmente responsabile delle suite più cosmiche e sperimentali dei primi dischi e dei primi tour (nonché, pare, “direttore d’orchestra” dell’intreccio, di estrema fantasia lisergica, tra le percussioni di Hart e i tamburi di Kreutzmann), il gruppo si affaccia sul decennio del Watergate ricomponendo la parte più tradizionale della propria ispirazione.
Quando anche i Byrds hanno smesso di volare nella quinta dimensione per riscoprire la dolcezza country del focolare domestico, Dylan si è messo a contemplare «l’orizzonte di Nashville» e The Band ha reso immortali alcuni pellegri-naggi sonori nella «vecchia America», i Dead abbandonano la metropoli per la prateria. Il titolo di Workingman’s Dead deriva da un brano di Merle Haggard, Workingman’s Blues, e se la sei corde di Garcia si ispira a quella di Don Rich (chitarrista di Buck Owens), i testi di Robert Hunter raccontano di fuorilegge d’altri tempi, esperienze on the road e personaggi da film western. Per qualcuno si tratta di un tradimento, per altri, compreso chi vi scrive, l’atto di (ri)nascita di una band colta nella sua fase più intima e autentica.

Trovi l’articolo completo su Buscadero n. 378 / Maggio 2015

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