Interviste

Titus Andronicus: ritratto dell’artista (punk) da giovane

The Most Lamentable Tragedy – 29 canzoni per 94 minuti di musica – è il disco più coraggioso di una band cui le ambizioni, intese come forma di opposizione al consumo «usa e getta» tanto in voga di questi tempi, non hanno mai fatto difetto. Ne abbiamo parlato col cantante, chitarrista e compositore Patrick Stickles, uno di quei rari artisti in grado di affrontare una moltitudine di argomenti trovando sempre qualcosa di interessante e non scontato da dire, tanto che la conversazione, partita dal nuovo album, si è spostata subito in altri territori.


Sebbene tutti i vostri album, pur immediati, richiedano molto tempo per essere assimilati nella loro interezza, si spinge ancora oltre. Cosa ne pensi del fatto che la critica l’abbia definita una «punk-opera»? Tu come lo descriveresti?
Come una «rock-opera», appunto! La stampa lo chiama così perché io l’ho chiamato così, fin dall’inizio. Anche perché sono sempre io a scrivere tutti i comunicati stampa; sono il dialoghista, per così dire… Insomma, non voglio sembrare un pallone gonfiato, ma di sicuro non sono uno di quei tizi che sentirai rispondere, «ah, non so esattamente cosa intendevo…», perché io lo so.

Immagino questo abbia a che fare con la natura autobiografica della storia alla base del disco [un maniaco depressivo incontra il suo doppio, una manifestazione delle proprie paure, e questi lo convince a osservare in senso negativo le fondamenta della vita costruita fino a quel momento, ndr].
Sì, be’, in tutte le esperienze del personaggio principale ci sono anche le mie esperienze, quindi un po’ di autobiografia, ma anche parecchia fiction, perché non volevo scrivere un trattato sulla realtà quanto una specie di parabola, quindi avevo bisogno di ricorrere a tratti narrativi specifici, a forme puramente romanzesche. L’obiettivo era quello di verificare se ci fossero persone pronte a identificarsi nei miei strampalati problemi interiori, o nelle sofferenze di momenti critici da me sperimentati in prima persona. Volevo parlare di me, nel mio solito modo artistoide, ma anche rendere la storia non dico universale, però accessibile. Comunque la maggior parte dei brani riguarda in effetti episodi della mia vita, più o meno esposti nella maniera in cui sono accaduti.

Insomma hai “allestito”, in senso teatrale, i fatti tuoi. Confermando quanto si dice degli artisti, che in fondo raccontino sempre e solo se stessi, in modi diversi.
Possiamo dire così… ma quanto ho allestito la realtà e quanto, invece, ho trasportato la mentalità teatrale all’interno dei fatti reali? È uno dei problemi ricorrenti dell’arte. D’altronde guardarsi dentro, parlare di esperienze biografiche, significa rendersi conto di come la nostra “digestione” interiore dei fatti non sia mai neutra, non possa esserlo, ma costituisca al contrario un ennesimo riflesso della nostra personalità. Come nei sogni. E poi tutti noi sappiamo solo cosa significa essere noi stessi, non cosa significhi essere qualcun altro. L’unico modo per avere esperienza del noi, è quello di trasmettere l’esperienza dell’io a un pubblico. Un artista non può fare altro.
Quando ascolto qualcosa di veramente grandioso, diciamo Bruce Springsteen… Diciamolo pure… … ecco, quando ascolto canzoni come Born To Run e sento parlare di cose come «correre fino a collassare», con questo atteggiamento eroico, con questa voglia intensa di rivincita e cambiamento, è Springsteen a cantare, ma io, nella mia testa, divento lui. E non perché anch’io faccio, a un livello imparagonabile, il musicista. Chiunque può ascoltare un brano in auto, o al lavoro, e vivere a sua volta l’unicità dell’artista [Stickles parla con ricchezza di vocabolario a volte intraducibile: qui la frase sarebbe vicariously live the uniqueness of the artist, traducibile anche con «vicariare la singolarità dell’artista»; in ogni caso starlo a sentire, e coglierne nelle locuzioni articolate e forbite gli studi classici, è un piacere, ndr].
Inoltre, è anche l’unico modo per conferire bellezza e valore a occasioni altrimenti dolorose, come la rottura di una relazione o l’insoddisfazione personale per, non so, un lavoro che non trovi o una serenità che ti sfugge. Nelle circostanze più stupide, degradanti e fastidiose della mia vita, ho sempre avuto, per qualche minuto, quanti ne dura una canzone, Bruce Springsteen, i Rolling Stones o i Rancid a dirmi che le cose facevano parte della vita, che potevo accettarle e perciò uscirne. È quanto diceva Albert Camus nel Mito Di Sisifo, vivere intensamente per sfidare il destino, per essere liberi nella ribellione all’assurdità dell’esistenza.

Penso che da questo derivi anche la qualità di certi sforzi: Springsteen e gli Stones sono stati giganteschi finché il primo ha lottato per salvarsi la vita attraverso la musica e i secondi, nel vortice dei loro eccessi, hanno sgomitato per avere un posto nel mondo. Poi entrambi sono diventati un’altra cosa.
Sono diventati parte dell’ingranaggio capitalista. Prima lo stavano scalando. Poi tutti e due continuano a piacermi molto, ma è inevitabile, quando si raggiungono certe dimensioni, finire per assomigliare a una banca: si diventa too big to fail, «troppo grandi per fallire», perché si diventa responsabili di un indotto miliardario. E quindi si è anche troppo grandi per continuare a rischiare la propria vita, sacrificandosi e mettendosi in gioco fino all’ultimo, a ogni concerto. Si perde l’urgenza. Mick e Keef non potevano andare avanti a litigare per sempre, saranno arrivati a un punto in cui si sono detti, «abbiamo troppe persone alle nostre dipendenze per mandare tutto a monte a causa dell’ego».

D’altra parte, un artista non può neanche essere del tutto ignaro di, o disconnesso da, quanto accade intorno a lui; la “macchina” non può soltanto autoalimentarsi…
E perché no? Di certo molti musicisti hanno realizzato grandi dischi pensando di dover fare qualcosa che fosse al livello dei Velvet Underground o dei Sex Pistols. Ma perché Springsteen e gli Stones dovrebbero, a questo punto, avere un parametro diverso da quello del proprio pubblico? Il quale, mi pare, continua a trasmettergli il proprio apprezzamento. Ma uno è Bruce Springsteen, gli altri sono i Rolling Stones, cazzo, gli spetta. Se lo sono guadagnato. E lo dico perché se c’è una cosa che odio sono quegli artisti, e non sono pochi, intenti a pescare di continuo dal passato senza aggiungere nulla di personale. Quelli sono vampiri, necrofili o hipster del cazzo. Scelgono un’epoca da evocare e ne fanno la copia carbone. Rifacciamo il 1935. O il 1982. Non c’è scopo, non c’è ricerca… solo tonnellate di fuffa. Non sopporto chi se la gioca così facile. Gli Stones non hanno preso il blues per copiarlo pari pari, ma per renderlo ancora più provocatorio, problematico, pericoloso. Springsteen non ha fotografato e basta le armonie vocali e il doo-wop dei gruppi italiani del Jersey. Sono andati in zone sconosciute.

Quindi, insomma, 29 canzoni e 94 minuti sono comunque un tentativo di parlare a tutti?  O piuttosto una dichiarazione contro la bassissima soglia d’attenzione oggi riservata alla  musica?
Io voglio raggiungere il maggior numero di persone  possibile, ma senza prendere per i fondelli nessuno. Per quanto mi riguarda, molta musica contemporanea va a format. È un dato di fatto. Non c’è, come dicevo, l’urgenza espressiva, c’è un ragionamento preventivo sul tipo di pubblico cui s’intende risultare graditi. So di sembrare un vecchio scoreggione dicendo questo, ma… vedi, i Titus Andronicus sono una delle migliaia di band attive al giorno d’oggi. I ragazzi ascoltano milioni di mp3 di migliaia di band. Una percentuale ridicola di ascoltatori, dopo aver sentito forse per caso un mp3, vorrà – magari – sentire tutto il disco. Qualcuno, anticipandone le aspettative, farà in modo che il disco sia semplicemente una versione “lunga” di quel singolo mp3. E a qualche ascoltatore, ciò piacerà. Bene, quelli – chi vuole potersi aspettare sempre le stesse cose – non sono gli ascoltatori ai quali punto io. E se questo comporterà il fatto di non diventare una maglietta figa, o un nome spendibile nelle conversazioni, pazienza. Per questo, anche se The Most Lamentable Tragedy contiene alcune tra le nostre canzoni più pop, inizia con uno strumentale repulsivo: volevo mettere le cose in chiaro fin da subito e dare l’idea di una paralisi emotiva. Poi c’è da dire che internet, anziché amplificarle, ha ristretto le idee della gente riguardo all’arte.

C’è troppa scelta e, di conseguenza, un mucchio di dispersione.
La scelta va bene. Ma devi sapere cosa scegli, altrimenti sarai paralizzato dal numero di opzioni. Ai tempi dei nostri primi tour, dormivamo magari a casa di qualche fan, e questo aveva una decina di dvd, poteva insomma capitare ne guardassimo uno o due. Oggi, se facessimo la stessa cosa, perderemmo almeno tre ore con la barra della ricerca di Netflix. Serve consapevolezza. Questo tipo di consapevolezza non può arrivare dalla pura disponibilità. Io non faccio musica da ascensori. Non puoi mettere la musica dei Titus Andronicus a una cena, se non per sabotarla… ma lo devi sapere. Devi dotarti degli strumenti necessari alla scelta, in modo da non essere un consumatore passivo di opere preconfezionate per venire incontro al tuo gusto. Un disco è un film, un film è un libro, un libro è un concerto… sono forme nella nostra testa. L’unico a sostenere la visione dell’artista, ormai, è Kanye West…

Kanye West? Non lo conosco così bene, ma non è anche lui prigioniero di una concezione per cui è tutto sullo stesso piano? È tutto – la musica, le produzioni, i vestiti, il culo di sua moglie – su Instagram, quindi non si capisce cosa sia arte e cosa marketing.
Si sovrappongono e si annullano. Sì, ma quando sei così grande, per forza tutto fa parte del “marchio” Kanye West. Se non fosse così famoso anche per altre ragioni, le sue prese di posizione a favore dell’autonomia degli artisti non otterrebbero la stessa eco. In ogni caso non posso non condividere le sue parole quando sostiene che gli artisti sono schiavi dell’industria e delle multinazionali. C’è anche lui, in mezzo, ma per farti sentire hai bisogno di volume. Tu cosa dici, si può portare un messaggio rivoluzionario da certi pulpiti?

I Clash l’hanno fatto.
Certo, e come loro altri hanno usato il sistema per dichiararsi «anti-sistema». Anche i Crass…

Secondo i quali Jones e soci erano dei venduti…
Sì, ma in un’intervista, quando gli chiesero cosa pensasse delle rivendicazioni dei Crass, Joe Strummer disse di stimarli molto ma di ritenere la loro azione «una tempesta in un bicchier d’acqua», talmente piccola da risultare poco effettiva. Io amo i Clash e i Crass, ma come efficienza della comunicazione sociale, be’, la strada è quella dei primi, non dei secondi.

Se sei troppo piccolo c’è il rischio di predicare solo ai convertiti. Anche se per quanto mi riguarda le battaglie di Steve Earle sono più credibili rispetto a quelle di Kanye West.
Se vuoi trasmettere un messaggio che venga recepito dalla tua comunità umana, intendo, la comunità umana dominante in un dato momento dell’evoluzione, devi avere i mezzi per raggiungerla. I Clash potevano farti pensare, non so, a quanto fossi razzista o limitato nelle tue convinzioni circa il resto del mondo, Kanye West può farti riflettere su cosa voglia dire avere il controllo della propria arte. Lo fanno o l’hanno fatto in un modo comprensibile anche per – faccio un esempio – mio padre. Steve Earle, artista eccezionale, potrebbe essere capito anche da mio padre, se fosse consapevole della sua esistenza.

Nel disco, come in questa intervista!, ci sono migliaia di parole e pure improvvisi momenti di silenzio. Altrettanto significativi. Qual è la loro essenza? Volevi dare un’idea dello scorrere della vita, del fatto che certe cose, semplicemente, accadono, come gli imprevisti e il silenzio?
Anche, sì… ma soprattutto è il mio modo di protestare contro il modo in cui le cose, oggigiorno, vengono masticate e digerite senza comprenderne davvero lo spirito… Non vorrei sembrare pretenzioso, ma mi piacerebbe se chi ascolta The Most Lamentable Tragedy lo facesse con la consapevolezza di trovarsi di fronte a un disco dove ci sono ricerca, durata, impegno. Qual è il problema, oggi, con questi concetti? Con il numero di pagine di Delitto E Castigo, con i minuti di Nymph()maniac, con tutti i movimenti delle opere di Wagner… e quelle duravano giorni! Un’opera d’arte respira, striscia, si solleva e ti solleva. Dovrebbe provarci. Io non ho capito nulla dei primi quattro episodi della seconda stagione di True Detective, ne ho guardato ognuno almeno tre volte, ma sono contento di averlo fatto…

Nel caso di True Detective, più che delusi dalla seconda stagione, ci sono – credo – solo orfani della prima…
Come dicevamo prima, tutti volevano rivivere la stessa cosa, di nuovo. Eppure quando trovi un artista degno di rispetto – lo sceneggiatore di True Detective, il regista così folle da imbarcarsi in un’opera infinita – dovresti lasciargli fare ciò in cui crede. Invece vogliono solo prodotti per soddisfare la propria indole di consumatori seriali. Anch’io posso avere una deriva seriale, ma al massimo sono soddisfatto constatando di avere tutta la discografia di Lou Reed sul mio iPhone…

Anche Metal Machine Music o Hudson River Wind Meditations?
Sì, sono tra quelli che ho ascoltato di più, più di Mistrial o Growing Up In Public senz’altro, e sono dischi nei quali puoi sentire un legame, puoi sentire l’indirizzo dell’artista, la direzione intrapresa con, contro o a dispetto del pubblico, ma una direzione precisa. Oggi, a Brooklyn, ci saranno cento gruppi intenti a fare quanto faceva Lou Reed in Metal Machine Music. Ma di Lou Reed ce n’era uno solo. Di Neil Young ce n’è uno solo. Nessuno vuole più essere artista come lo sono stati loro, oggi gli artisti sono perfetti sconosciuti occupati a caricare il loro materiale su BandCamp o SoundCloud. Ma non si può avere una misura di cosa si sta facendo senza confrontarsi col pubblico nella sua declinazione più vasta. Solo che il pubblico, come dicevo, andrebbe anche sfidato, di tanto in tanto, e non solo assecondato. È quello che nel nostro piccolo, con i Titus Andronicus, cerco di fare a ogni nuovo album.

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