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Tutti gli uomini del re, Robert Penn Warren

tutti gli uomin del reTUTTI GLI UOMINI DEL RE
Robert Penn Warren
Feltrinelli

Non cambia mai niente. La vita, l’amore, la politica, la famiglia, quel passato che non passa mai. E’ tutto immobile, inchiodato dalle abitudini, dalle idiosincrasie e dai luoghi comuni fino a quando, complice il fatto che gli esseri umani hanno un equilibrio precario, l’imprevedibile diventa inevitabile e la storia si rivela nella tragedia.
Tutti gli uomini del re ha il senso ultimo del classico perché, fatte le dovute proporzioni e gli adeguati aggiustamenti, il suo svolgimento potrebbe raccontarci come funzionano le cose (la vita, l’amore, la politica, la famiglia, etc.) ancora oggi. La curatissima riedizione (collana Feltrinelli Indies, in collaborazione con 66thand2nd, 570 pagine, 22 euro, la traduzione è di Michele Martino) lo colloca nella giusta dimensione che merita un capolavoro, quale è Tutti gli uomini del re perché racconta della costruzione del potere, degli uomini e delle donne dentro il potere, nella sua espressione più appariscente, la ricerca del consenso, le campagne elettorali, la corruzione, le trame e i complotti a mascherare una drammatica fragilità umana. Tutto ruota intorno al personaggio di Willie Talos e, come dice Joyce Carol Oates

“il fatto che il protagonista di questo romanzo sia entrato nella memoria letteraria collettiva insieme al capitano Achab, Huckleberry Finn, Jay Gatsby, Holden Caulfield, Harry Rabbit Angstrom e pochi altri testimonia il valore eterno di Tutti gli uomini del re”.

Le citazioni in sequenza del Moby Dick di Melville, di Francis Scott Fitzgerald, di Salinger e John Updike rendono l’idea del livello a cui è arrivato Robert Penn Warren che, nel cantare le gesta di Willie Talos, vinse il premio Pulitzer nel 1947. Ispirato alla figura (storica) del governatore della Louisiana Huey Pierce Long, Willie Talos incarna l’essenza del politico moderno. Qualcuno lo ricorderà con il volto di Broderick Crawford nell’omonimo film (premio Oscar nel 1949) o nel più recente remake di Steven Zaillian, interpretato da Sean Penn (e con la colonna sonora di T Bone Burnett, per restare tra noi). Anche se per il cinema ha preso il nome di Willie Stark (come nelle prime versioni del romanzo), lui è sempre Willie Talos. E’ l’outsider che viene dalla provincia, che non riesce a perdere il suo accento dialettale o l’odore della terra e degli animali, che viene buttato nella mischia della campagna elettorale come vittima predestinata alla sconfitta, pedina sacrificabile dell’intrigo del momento che invece si rivela “il simbolico portavoce del muto ed encefalitico popolo dei probi”. Già da questa definizione si capisce che Robert Penn Warren pennella a tinte forti, grezze, impressionanti, con un’idea chiarissima della singola scena e così del meccanismo che le collega una all’altra.
Basta il primo capitolo, maestoso, che potrebbe essere un racconto, fatto e finito, per rendersi conto dell’abilità di Robert Penn Warren, anche quando deve inserire quelli che davvero sono Tutti gli uomini del re, ovvero tutti quei personaggi che non sono Willie Talos e che, dislocati nei punti strategici, con una gran classe e una personalissima disinvoltura, fanno risaltare le caratteristiche più profonde del protagonista. Più di tutti, è l’alter ego di Willie Talos, il suo spin doctor, il suo ghost writer, Jack Burden. Colto, giovane, proveniente da una famiglia tanto agiata quanto disordinata, Jack Burden è il cronista di un quotidiano locale che viene incaricato di seguire la campagna elettorale di Willie Talos. Robert Penn Warren non precisa di quale lembo degli Stati Uniti si sta parlando, anche se le traiettorie e molti particolari portano a identificare un’area che potrebbe essere tra la Louisiana, la Georgia o il South Carolina, ma nell’attraversare le zone rurali, ancora colpite dagli strascichi della crisi economica esplosa nel 1929, la distinzione di censo tra Jack Burden comincia a sovrapporsi alle distinzioni di classe su cui si reggono i programmi e i proclami politici. Uno è affascinato dall’altro. Jack Burden vede in Willie Talos quel coraggio, quella forza, quell’aura degli eroi che ha sempre e soltanto letto nei libri. Willie Talos sente in Jack Burden quello che non ha mai avuto e che si è dovuto conquistare, ma che non gli appartiene perché sa che

“Il fine ultimo dell’uomo è il sapere, ma c’è una cosa che non saprà mai. Se sarà salvato o ucciso dal sapere. Sarà ucciso, d’accordo, ma non saprà mai se sarà ucciso per il sapere che ha acquisito o per il sapere che non ha acquisito e che se invece avesse acquisito lo avrebbe salvato”.

La scrittura florida e fluida nello stesso tempo di Robert Penn Warren, “americana” nella sua profonda essenza popolare riunisce Tutti gli uomini del re attorno al torbido legame tra Willie Talos e Jack Burden che non risparmia niente e nessuno e corre feroce verso la tragedia perché la politica non è una passeggiata e

“quando si vuole troppo, di solito ti succede qualcosa. Ti trasformi nella sola e unica cosa che desideri, nient’altro, perché hai speso troppo per lei, troppo tempo ad aspettarla, troppo nel desiderarla, troppo per raggiungerla. E alla fine ti fanno solo quelle domandine di merda”.

Il punto è proprio quello, anche per chi, come Willie Talos, come tutti i magici imbonitori dei nostri giorni, come tutte le figure danzanti della democrazia, crede di avere nel proprio verbo “il cuore del popolo”. Le parole d’ordine di Tutti gli uomini del resono sempre le stesse: promesse, speranze, cambiamenti, progressi che riempiono i discorsi destinati a trascinare i bifolchi (Willie Talos dixit) nella cabina elettorale. Questo succede nella tabella di marcia diurna, quando viaggiano a tutta velocità da una route all’altra, sfoderando sorrisi e abbracci, gioia e commozione, come se fossero incastonati in una ballata di Gene Autry. Di notte comincia tutta un’altra versione della “bella politica” e la principale regola d’ingaggio è che un uomo

“deve tenere in ordine la propria artiglieria. Non si può mai sapere quando si dovrà correre per mettere a ferro e fuoco la città. Né quando si riceveranno ospiti a cena”.

Nelle “after hours” irrorate dal whiskey prendono forma tutte le macchinazioni innate alla ricerca del potere e al suo mantenimento. Bisogna sempre scoprire “qualcosa” per incastrare chi non si adegua e non bisogna mai dimenticare che c’è sempre qualcuno che sta architettando e aggiornando un piano contrario. Tra i rivali o tra gli alleati, non si può mai abbassare la guardia perché come dice Jack Burden in uno dei passaggi più strazianti di Tutti gli uomini del re:

“Sono un politico, e noi non abbiamo amici”.

In quel momento Willie Talos e Jack Burden si sovrappongono, uno deve difendere l’altro e nel corto circuito che ne nasce si genera una forza bruta, incontrollabile che distrugge tutto e ripristina lo status quo. Tutti gli uomini del re è straordinario nel raccontare cosa fa la politica agli uomini (e alle donne) ed è efficace oltremodo nello spiegare come siano preda e cacciatori, consapevoli e in contemporanea, perché “forse non è mai possibile allontanarsi davvero da ciò che vorresti evitare”. Così è la vita, e così è la politica, o quello che ne rimane nelle cruente lotte per il potere. Il resto è letteratura, qui ai massimi livelli.

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