Recensioni

Van Morrison, Duets: Re-working The Catalogue

vanmorrisonVAN MORRISON
Duets: Re-working The Catalogue
RCA/Sony Music
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Sono passati tre anni da Born To Sing: No Plan B, il suo ultimo lavoro. C’era un certo fermento sul suo nuovo album ma, già da un po’ di tempo, girava la voce che fosse un disco di duetti. E’ il rumore si è tramutato in realtà. Van Morrison ritorna in studio per un disco di duetti, dove rilegge 16 canzoni del suo repertorio che hanno un comune denominatore: quello di non essere famose.
Non ci sono Moondance, Wild Night, Ballerina, Gloria, Brown Eyed Girl, Domino, Here Comes The Night, Sweet Thing, Have I Told You Lately, Warm Love, And It Stoned Me, Madame George, Crazy Love, Into The Mystic etc. Ce ne sono altre, alcune in verità discretamente  note (Real Real Gone, Irish Heartbeat, Carrying a Torch,  Wild Honey, Rough God Goes Riding), altre ben poco. Canzoni che vengono rilette, alcune in modo abbastanza tradizionale, altre meno, tramite duetti con musicisti di nome, alcuni molto famosi, altri meno. Ci sono nomi che non avremmo voluto vedere accanto a quello dell’irlandese: e mi riferisco a Mick Hucknall, Joss Stone, George Benson, Natalie Cole, Michael Bublè, per il tipo di musica che fanno, per il pubblico a cui sono indirizzati. Altri invece sono delle scelte soddisfacenti.
Ma andiamo  con ordine. Per la prima volta Van si fa affiancare da due produttori veri. Don Was e Bob Rock. Il disco viene inciso a Belfast, a casa sua, e a Londra, nell’arco dell’ultimo anno. Un lavoro notevole, con arrangiamenti ricchi e riletture puntigliose: l’irlandese canta bene, ci mancherebbe, molto bene, confermando di essere in grande forma. Bobby Womack è scomparso di recente, 27 Giugno 2014, ma ha fatto in tempo a registrare questo brano con Van: Some Peace of Mind. Tratto da Hymns to The Silence (uno dei dischi più belli di Morrison, ricercato da molti, fuori catalogo da anni), un album del 1991. Rilettura sofisticata, molto soul, con le due voci che si intrecciano magnificamente: spigolosa quella di Van, calda quella di Bobby. Due voci che stanno benissimo assieme, che non si pestano i piedi e Some Piece of  Mind è una rilettura tonica, di grande classe (notevole la parentesi di sax).
Lord, If I Ever Needed Someone, uno splendido brano che arriva dal grande His Band and The Street Choir, è la seconda canzone. Forse la più bella del disco: una versione soul-gospel cantata da Van con Mavis Staples. Eccellente rilettura, cantata con il cuore in mano, suonata splendidamente, con Mavis che incrocia Van in modo assolutamente espressivo e la canzone, calda e avvolgente, che ci prende e non ci lascia più. Higher Than The World (da Inarticulate Speech of The  Heart), mi piace meno. George Benson, il sofisticato  chitarrista (ex) jazz, è un partner ideale per uno come Bublè, non per Morrison che, a mio parere, avrebbe bisogno (sempre) di qualcosa di più sanguigno. Classe, ovvio, ma anche molto mestiere.
Wild Honey (Common  One) è cantata in coppia con Joss Stone. A mio parere  è la meno riuscita del lotto, sia per l’arrangiamento che per la Stone, che fatico a sentire di fianco a Van. Whatever Happened to P.J. Proby  (Down the Raod) viene cantata proprio assieme a P.J. Proby. Dove sia andato a scovare il vecchio Proby (classe 1938 e inattivo da anni), non si sa, ma sia l’arrangiamento, leggermente jazz che la voce di Proby, sono più che positivi. La canzone è gradevole ed è suonata con classe. Carrying A Torch (Hymns to The Silence) è una grande ballata e, anche in questa rilettura abbastanza sofisticata, rimane tale. La voce che affianca Van, molto bella, è quella di Clare  Teal. Non conosco bene la signora Teal, ma so che è una cantante jazz inglese, molto nota in patria. E Clare tiene banco alla perfezione in questa cover ricca, ben suonata (c’è un eccellente uso del piano), che viene portata a termine in modo decisamente soddisfacente.
Altra piacevole gemma, risulta The Eternal Kansas City (dal bistrattato A Period of Transition). Van incrocia la sua voce con quella di Gregory Porter, emergente jazz singer, e la canzone è assolutamente brillante. Bel suono, ritmo, una tromba e un piano formidabili e due voci che fanno a gara a fare meglio l’una dell’altra. Un brano ignorato all’epoca che risulta decisamente più bello della versione originale. Street of Arklow (tratta dal grande Veedon Fleece) meritava invece un altro trattamento: non tanto per il suono quanto per la scelta di Mick Hucknall (Simply Red), uno che qui c’entra ben poco. Andamento lento, arrangiamento sofisticato (ma neanche tanto) poi le voci: ma non c’è alchimia tra Mick e Van. Peccato, una canzone di questo spessore si meritava un compagno migliore, una voce più bella. Natalie Cole, figlia del grande Nat King, è invece una scelta azzeccata: la sua performance in There Are  The Days (Avalon Sunset) è delicata e decisamente adeguata. La canzone, ancora molto bella, vive sull’incontro delle due voci, mentre un arrangiamento caldo le avvolge con eleganza. Un grande brano, che rimane tale. Get On With The Show, con il vecchio amico Georgie Fame (arriva da What’s Wrong With  This Picture), è una buona versione di un brano minore. Abbastanza ritmata, le due voci viaggiano all’unisono e la canzone che si muove in modo agile tra ritmiche pulite, influenze jazz e scampoli di bella musica.
Rough God Goes Riding (The Healing Game) rimane una delle mie favorite, tra le canzoni meno note di Van. Questa versione, splendida, viene rifatta in compagnia della figlia Shana Morrison. E Shana entra alla perfezione nella parte, cosa che fa spesso, dal vivo, quando si esibisce con papà. La canzone, una di quelle ballate per cui il nostro va giustamente famoso, è suonata in modo sontuoso con tutti gli strumenti al posto giusto. Quasi meglio dell’originale. Fire In The Belly (ancora da The Healing Game) è la scusa per entrare in studio con il vecchio amico Steve Winwood. Buona versione, sin troppo sofisticata, più di Winwood che di Van, ma che mantiene salda la melodia e mette bene le due voci a confronto. Però mi aspettavo di più. Notevole per contro Born to Sing (tratta dal suo disco più recente, Born to Sing: No Plan B), dove l’irlandese divide il brano con Chris Farlowe. E il vocione di Chris entra benissimo nella canzone (sembra quasi Tom Jones), dando forza al brano, che risulta anche migliore della versione originale. Splendida poi Irish Heartbeat: una ballata fantastica già di per sé stessa, che rivive attraverso la voce di Van e quella di Mark Knopfler, che nelle atmosfere irish oriented ci sguazza alla grande.
Tra le più belle dell’album (arriva dal disco omonimo, quello inciso da Morrison coi Chieftains, introvabile pure lui da anni). Real Real Gone (Enlightenment) è  sicuramente tra le più riuscite di Duets. Ritmo acceso, grande batteria e una canzone di indubbia forza. Van fa coppia con Michael Bublè e il duetto non è niente male. Di Bublè possiamo dire di tutto: che ci sta sulle palle, che è troppo famoso, che è uno che segue le mode, ma una cosa bisogna ammetterla, che sa cantare. Cosa che appare evidente in questa rilettura, piena di verve, suonata in modo aggressivo e cantata con forza. Non per nulla è stata scelta come brano apri pista.
Chiude un blues, How Can a Poor Boy (Keep it Simple) Morrison sceglie il grande Taj Mahal e l’accoppiata funziona molto bene. Due grandi voci, un bel brano, suonato in modo adeguato, con un ritmo e una classe notevoli. Degna conclusione di un disco molto atteso, bello, in alcuni momenti molto bello, che non mancherà di soddisfare i numerosi fans dell’irlandese che, da troppo tempo, attendevano qualche cosa di nuovo. Adesso però vogliamo un disco veramente nuovo, con canzoni nuove.

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