Foto © Lino Brunetti Ne hanno fatta di strada i bar italia dai tempi in cui suonavano ammantati dal buio più assoluto, senza nessuna luce sul palco. Li attorniava un senso di mistero e una sorta di coolness che in realtà servivano a nascondere una profonda timidezza e, presumibilmente, un certo disagio a stare sul palco. Quando iniziarono a frequentare i festival, magari eseguendo le loro performance alla luce del sole, l’enigma che li circondava in effetti si dissolse, lasciando il campo alla nomea di band un po’ statica, impacciata, forse anche un po’ snob. Per imparare a fare bene le cose, non c’è niente di meglio che farle parecchio, e negli ultimi anni, nel mentre che pubblicavano una serie di album brillanti, ben trattati dalla critica e accolti con favore da un pubblico sempre crescente, i bar italia sul palco ci sono stati davvero un sacco.
Basta l’approccio spavaldo con cui si tuffano in una Fundraiser deputata ad aprire le danze – dopo l’impalpabile performance dell’inconsistente duo Corporate Finance, misto folk/pop/r&b tutto su basi registrate, cantato inoltre con voci traballanti – per far capire che oggi sono del tutto una nuova band. Più audace, più sicura di sé, maggiormente capace di tenere il palco e dare vita a uno show elettrico e pulsante. Nina Cristante – italianissima, ma da tempo residente in UK – è oggi credibile nel ruolo di frontwoman: balla, si sporge verso il pubblico, almeno un minimo gioca col ruolo di fatale diva sexy. La sua voce si mescola bene con quella dei suoi compagni di viaggio, i chitarristi e cantanti Sam Fenton e Jezmi Tarik Fehmi, come lei entrambi songwriter dei pezzi del gruppo, cosa che dà al loro repertorio un certo dinamismo. Entrambi sembrano anch’essi maturati parecchio, sia nel modo di stare on stage, che nel fraseggiare chitarristico, più ritmico e classico quello di Fenton, più distorto e tagliente quello di Fehmi, ambedue capaci di lanciarsi in qualche stringato assolo. A completare la band, come sempre ci sono dei musicisti aggiunti, in questo caso la bassista Mathilde Bataille e il batterista Liam Toon, a incarnare una sezione ritmica potente, base solida sulla quale costruire le varie canzoni.
Avendo pubblicato di recente un nuovo album, l’ottimo Some Like It Hot, tra l’altro probabilmente quello più convincente e meglio prodotto della loro carriera, è su quest’ultimo che si concentrano maggiormente, proponendo pezzi ben recepiti da un pubblico entusiasta, composto da molti giovanissimi e da tanti stranieri, come una I Make my Own Dust dai risvolti quasi shoegaze, la veloce e puntuta Eyepatch, la quasi strokesiana omni shambels e una serie di ballate dal carattere quasi psichedelico come le bellissime The Lady Vanishes e Plastered tra le altre.
L’incrocio fra le voci funziona benissimo e il suono che ci sta sotto risulta vigoroso e fresco, testimoniando non solo la loro appartenenza al più classico stile indie-rock (“genere” che, nelle sue varie forme, pare proprio stia tornando a beneficiare di un pubblico giovanile, finalmente), come evidenziato pure da un pezzo come Rooster, ma pure l’assoluta centralità delle chitarre nel loro sound. Nel pubblico, qui e là c’è chi reagisce anche con un minimo di pogo, ma, da parte di tutti, soprattutto sempre con un entusiasmo quasi inaspettato, che non può che essere recepito pure dalla band. Su pezzi come le vecchie Nurse e Punkt il boato è assordante e pure il bis, col terzetto Some Like It Hot, charger e Cowbella è all’insegna del trionfo più assoluto.
Ora, dirvi che sia la miglior live band mai vista sarebbe ovviamente una palese esagerazione (pure che non sono mancate delle sporadiche improvvisazioni e dilatazioni, che hanno reso più interessanti ancora un paio di pezzi), ma nell’ora e venti che sono stati sul palco hanno divertito parecchio e in diverse occasioni esaltato pure. I timidi bar italia di un tempo non ci sono più, e va molto bene così.