Foto: Rodolfo Sassano

In Concert

Beth Hart live a Milano, 28/04/2015

Strano che per una delle voci più significative del panorama soul/blues/rock odierno, che negli Stati Uniti riempie i teatri e canta per Obama, in Italia si debba dimezzare lo spazio dell’Alcatraz per far posto ad un pubblico sì numeroso ma non esorbitante. Forse Beth Hart, voce incredibile e performer eccezionale, paga il prezzo di trovarsi con la sua musica a bazzicare quel confine in cui il soul ed il blues poco più in là lasciano spazio ad una canzone d’autore appetibile al circuito commerciale. Cosa che tiene piuttosto distanti gli ortodossi di quei generi, restii verso un’artista che, come possono confermare i duemila presenti all’Alcatraz martedì 28 aprile, è capace di suscitare emozioni come poche cantanti oggi, attraversando la musica senza bisogno di steccati e aree preferenziali, rispettando generi e radici ma costruendo con la sua voce, il suo pianoforte, la sua band, la sua intensa e sanguigna performance un crossover di blues, soul, rock, reggae, canzone d’autore, pop, r&b e perfino di country, quando la cantante californiana seduta su uno sgabello imbraccia la chitarra acustica e accompagnata dai suoi due chitarristi inscena un siparietto semiunplugged vicino ai suoni di americana.
Certo, Beth Hart canta per un pubblico più ampio di quello delle riviste specializzate e delle nicchie di settore, ma che male c’è, quando il cuore è quello di una che sul palco dà tutto sé stessa, quando l’anima è quella della soulsinger che riconosce come maestre Billie Holiday, Etta James, Bessie Smith, Janis Joplin, quando l’esuberanza è quella della rockeuse che vuol far divertire e muovere il suo pubblico, quando le movenze sono di una Tina Turner dal prorompente sex appeal, quando la voce, oggi ammorbidita rispetto alle urla del passato, possiede le modulazioni per passare nel lasso di tre minuti dalla disperazione allo struggimento del suo soul torturato alla gioia di chi grida alla vita. Potente e smagliante ma anche arrochita e aspra, una voce che mette i brividi e poi gioca maliziosa allorché nei brani più leggeri, per via di un sensualità istintiva e non studiata, di tatuaggi sparsi per tutto il corpo, di una bellezza selvaggia e felina, di una grinta oggi più di ieri tenuta a bada dai modi di una ragazzaccia che è stata all’inferno (droga, alcol, psicofarmaci) ed è tornata donna, sembra una Amy Winehouse solare di sponda californiana, meno fragile ma ugualmente inquieta.
Vestita con un mini abito dallo sfavillante color azzurro, stivali e calze nere, vistosamente in carne e coi lunghi capelli castani raccolti dietro, Beth Hart ha iniziato sedendosi al pianoforte, contornata da una pletora di finte candele elettriche e in solitario ha intonato la struggente Lay Your Hands, ipnotizzando con la sua voce e i suoi occhi felini un pubblico che non desiderava d’altro essere conquistato e più volte gli ha urlato “we love Beth” ricevendo come risposta “siete il miglior pubblico di tutto il tour europeo, non vorrei mai scendere da questo palco“. Per due ore ha condotto uno show sontuoso e caldo, ora seduta al pianoforte, ora muovendosi sensuale da provata rockeuse, ora suonando la chitarra acustica, ora dialogando con la band, i due chitarristi Jon Nichols e PJ Barth pallida copia del suo sodalizio con Joe Bonamassa, il batterista Bill Ransom, il bassista Bob Marinelli, ora invitando sul palco e abbracciando il marito e road manager Scott Guatzkow a cui ha una commovente e romantica My California.
Tante le aspettative di un pubblico che sembrava conoscere passato e presente dell’artista, i brani della sua spericolata gioventù (si veda a proposito l’incandescente Live at Paradiso del 2005) come quelli del recente album Better Than Home, Beth Hart non l’ha deluso e ha pescato nel suo ricco songbook, spaziando dall’intima Better Than Home all’acclamata Tell Her You Belong, entrambe dimostrazione del suo lirismo viscerale, dalla swingata The Mood That I’m In alla rockata Might As Well Smile, da una Bang Bang Boom Boom in salsa country alla funkeggiante Trouble, da una Baddest Blues da pelle d’oca cantata al pianoforte come fosse una sorta di Strange Fruit, da Waterfalls a One Eyed Chicken. Ha perfino vestito di reggae-soul qualche sua canzone evocando quello stile simpaticamente compromesso col commerciale che fu della Winehouse ma il meglio l’ha offerto quando seduta al pianoforte si è calata corpo e anima nelle sue torch songs o ha messo in scena perle come I Love You More Than You’ll Ever Know scritta da Al Kooper periodo Blood, Sweat & Tears. Insomma una cantante ed una performer a tutto tondo, che non bluffa sul palco come nella vita, che si dà al pubblico con tutta la sincerità e l’onestà delle sue canzoni e anche se a tratti un po’ platealmente regala una musica pulsante, romantica, sofferta, gioiosa, un’artista che appartiene ad una storia di grandi vocalist dell’anima, non importa siano loro nere o bianche. Concerto emozionante.

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