Interviste

Bill Callahan in arrivo in Italia per due concerti: la nostra intervista

Senza tema di smentita, Bill Callahan è un dei più grandi e originali singer songwriters degli ultimi trentacinque anni, al pari almeno di un personaggio come Bonnie Prince Billy, col quale ha pure avuto modo d’incrociare la sua strada. Parlano per lui gli immortali album pubblicati come Smog prima e quelli più classici usciti a suo nome in seguito, uno più bello dell’altro e tutti da scoprire. L’anno scorso ci ha lasciato di stucco con uno dei dischi dal vivo più belli degli ultimi anni, Resuscitate, pubblicato da Drag City, e imminenti sono i suoi concerti in solo qui dalle nostre parti.

Bill Callahan sarà infatti, a dieci anni di distanza dall’ultima volta, in concerto in Italia il 13 luglio all’Anfiteatro del Vittoriale di Gardone Riviera (BS) e il 14 al Teatro Romano di Ostia Antica, Roma, con in apertura il cantautore Jerry David DeCicca. Info per biglietti: qui.

Abbiamo colto l’occasione per chiacchierare con lui, di musica dal vivo e tante altre cose.

Con Resuscitate, sembra tu sia riuscito a ridare dignità alla categoria, ormai apparentemente obsoleta, dei dischi dal vivo. Non solo riesce a rendere giustizia all’esperienza dello spettacolo live, scattando un’istantanea di un momento irripetibile, ma è pure qualcosa di più di un semplice documento: è un atto creativo nei confronti delle canzoni stesse, letteralmente trascinate via e stravolte dal feeling dell’esecuzione. Puoi raccontarmi qualcosa di quel particolare tour e della decisione che ti ha spinto a documentarne una data, tramite la pubblicazione di un disco?
Le canzoni cambiano sempre dopo essere state registrate per un album in studio. Di solito, quando registro un disco, sono così nuove che cambiano a ogni take. Quindi, se registro tre take di una canzone, ognuna sarà diversa dall’altra. È normale, poi, che quando inizio a provare le canzoni registrate per suonarle dal vivo, nuovamente mutino ogni volta in qualcosa di diverso. Con Reality e Resuscitate il cambiamento è stato più rapido ed estremo. Ha avuto molto a che fare con il fatto di essere andato in tour, per la prima volta, con un sassofonista, poiché il sax è uno strumento multitimbrico, con la capacità di suonare diverse note allo stesso tempo. Dustin Laurenzi ha una buona conoscenza dell’improvvisazione e questa conoscenza mi ha permesso di spingere la band in nuove direzioni. Bastava chiedergli di fare qualcosa e lui era in grado di farlo e di farla suonare bene. Questo ha permesso anche al resto della band di estendersi. Ci è voluto un po’ di tempo per arrivare a questo risultato: durante il primo tour stavo ancora cercando di capire come tenere assieme tutti gli elementi. Ma all’inizio della tranche negli Stati Uniti, sapevo che stavamo facendo qualcosa che valeva la pena documentare. Ero inoltre conscio della mia tendenza ad andare avanti molto velocemente, quindi ho pensato che avrei dovuto fissare in qualche modo quella testimonianza, perché non sarei mai più tornato in quello stesso posto.

Se i concerti con la band poggiano su un dialogo libero tra i musicisti a partire dalle strutture dei brani, le esibizioni in solitaria sono inevitabilmente più sobrie e lavorano più sul cesello e l’intensità. In quali di queste due dimensioni senti di entrare maggiormente in comunione con le tue canzoni e con il tuo pubblico?
Le esibizioni da solista sono più faticose: siamo io e la canzone. Una sola persona può fare molto, ma questa dimensione rende tutto più intenso per l’esecutore e per l’ascoltatore. Quando si è solisti, spetta solo a te animare la canzone, darle respiro, vita. Quando si è con una band, è come se la canzone avesse una vita propria. Tu sei solo uno degli elementi che la tiene in vita. Il resto è controllato da altri, quindi l’impressione che provo è quella di essere un custode. Con una band mi sento come se facessi parte del pubblico, mi sembra di assistere alla canzone come se questa fosse qualcosa di esterna a me, indipendente da me. Da solo, invece, vedo il pubblico come parte della band, come qualcuno che possa aiutarmi a eseguire la canzone. O almeno, questo è quello che spero sempre! A volte, suonare da solo può farti sentire come un animale allo zoo, con la gente a guardarti nella tua gabbia fatta di canzoni. Non sono più il guardiano dello zoo, sono l’animale.

Ritieni che i concerti con la band soddisfino più la tua dimensione di musicista, mentre i concerti in solitaria quella di cantante? 
Credo di sì. Perché quando sono da solo, sono l’unico musicista e quindi non ho bisogno di esserlo davvero. Ho bisogno di essere un musicista solo quando ce ne sono  altri due o tre attorno a me. È una questione di responsabilità, capisci, altrimenti sarebbe come se tre persone dicessero che stanno giocando a poker e io dicessi che sto giocando a pinnacolo. Se sono da solo, tutto è basato sul canto, ma ultimamente sto cercando di aggirare questo problema. Cerco di rendere lo spettacolo da solista un’esperienza diversa e insolita, per me come per il pubblico.

La tua carriera è cominciata alla fine degli anni Ottanta. Per dirla con Lou Reed sei «cresciuto in pubblico» e hai visto diverse generazioni interessarsi alla tua musica. Che tipo di spettatori popolano i tuoi concerti?
Quando ho iniziato, per molti anni, c’erano solo giovani, persone della mia età, ventenni o poco più. Col passare del tempo, hanno iniziato ad apparire anche persone più anziane. Ricordo la perplessità e la gioia che ho provato quando ho visto per la prima volta spettatori di vent’anni più grandi di me, ai miei spettacoli. E poi cominciarono ad arrivare i bambini. Non so ancora “chi” siano queste persone e probabilmente non lo saprò mai. A volte incontro dei fan e in realtà sono tutti diversi. Non riesco a inserirli in una categoria. Forse qualcuno che è all’esterno potrebbe riuscire a trovare un collegamento tra tutti loro, ma non certo io. È un avvenimento raro, ma molto bello quando accade, che un padre e una figlia siano presenti allo spettacolo, entrambi fan. A volte un’intera famiglia! È emozionante. È particolarmente sorprendente, per me, quando i ragazzi si interessano alla mia musica in questi giorni, perché non faccio parte dell’universo dei social media, che ci dicono essere molto importante per loro. Chi sono questi ragazzi che comprano dischi e scoprono la mia musica che non è sui social media? Chi lo sa?

Se ti chiedessi di indicare le differenze maggiori tra i dischi pubblicati some Smog e quelli usciti invece a tuo nome, cosa mi diresti?
Direi che nei dischi degli Smog c’era più ironia. Quelli usciti a mio nome, sono un po’ il tentativo di parlare con il cuore, senza quella maschera.

Soprattutto nei tuoi lavori recenti, mi sembra che l’importanza dei musicisti che suonano con te sia cresciuta. Sono album veramente collaborativi. Come scegli le persone con cui suonare? È una questione di amicizia o che altro?
Una volta si trattava più che altro di amicizie. Portavo con me in tour chiunque volesse venire, senza pensarci troppo, perché pensavo che finché avessi scritto buone canzoni e fatto un lavoro decente nel suonarle, allora non sarebbe stato così importante quello succedeva sul palco. È stato stupido. Tieni però presente che, quando ho iniziato, non si facevano soldi. Ci vuole un tipo speciale di persona che accetti di venire in giro con te, di dormire sul pavimento di casa di qualche sconosciuto, mangiare pizza scadente ogni sera e tornare a casa con pochi soldi, forse per pagare a malapena l’affitto. Credo che sia stato quando ho iniziato a suonare con Jim White che mi sono reso conto che le persone giuste possono davvero dare un contributo alla musica. Ad ogni modo, non posso esibirmi con persone che non mi piacciano anche fuori dal palco.

Il tuo percorso artistico è stato ed è assolutamente affascinante. Semplificando al massimo, si è passati dal lo-fi sperimentale dei primi lavori a un cantautorato più classico, seppure assolutamente personale. Questa evoluzione che scorgiamo a livello discografico, come si è tradotta a livello di spettacoli live? Cos’era per te all’inizio un concerto e cos’è adesso?
Perbacco! I primi spettacoli erano come camminare su una fune con gli occhi bendati, attraverso una palude piena di alligatori. O come qualcuno che prova il suo primo aeroplano prima dell’arrivo dei fratelli Wright. Ero sempre stupito che la gente riuscisse a ricavarne qualcosa. Mi sembrava che fosse tutto sulle mie spalle. All’inizio c’era molto antagonismo e un disinteresse totale da parte del pubblico. Credo di aver assorbito quella sensazione e di essermela portata addosso troppo a lungo dopo i primi spettacoli. Ho portato con me quelle sensazioni, trascendendo l’antagonismo e il disinteresse, anche quando non c’era più quel clima. Mi ci è voluto un po’ per imparare a lasciar cadere la corazza che avevo eretto. Oggi mi sento come se la musica fosse una barca o un aeroplano: non posso spiegare come galleggerà o volerà, ma devo solo avere fiducia che lo faccia e seguire il viaggio.

Ho amato parecchio il disco che tu e Bonnie Prince Billy avete fatto assieme durante il periodo pandemico. Si respira un senso di libertà totale in quelle tracce. Quanto appagante è stato lavorare in quel modo e qual è la tua opinione sul risultato finale?
Pensavo che la gente avrebbe amato quell’album, ma la maggior parte delle risposte che ho ricevuto sono state «ehm, mi piace di più quando fai le tue canzoni». È stata la sfida più grande che ho intrapreso. Voglio dire, anche scrivere il proprio album e portarlo al traguardo è una sfida enorme. Ma nel fare quello ho il controllo totale. Con Blind Date Party le sfide mi sono state lanciate. Ho scelto alcune canzoni, ma la musica è stata realizzata da diversi gruppi, con pochi contributi da parte mia. Le band hanno avuto libero accesso a ciò che volevano e io ho dovuto inserirmi nelle loro canzoni. Quando faccio i miei dischi, è l’opposto. Faccio quello che voglio e il resto della band deve adattarsi. Ho registrato le canzoni di Blind Date da solo, con la mia workstation sul letto. Di solito non registro mai a casa in questo modo.

La tua musica mi ha sempre ricordato narratori americani come Cormac McCarthy o Richard Ford. Hai mai pensato di scrivere un libro? Sei un lettore? Se sì, quali sono gli autori che avverti a te più vicini o che semplicemente hai amato di più?
Ho scritto un libro – Letters To Emma Bowlcut – che era un romanzo epistolare. Se potessi costruire una casa con i libri come mattoni, lo farei. Ultimamente, alcuni libri di Roberto Bolaño mi hanno molto impressionato. Sto cercando di capire perché e come. Sulla copertina di un libro che ho appena comprato, c’era un trafiletto che descriveva il suo lavoro come, tra le altre cose, «di compagnia». È così? Leggere i suoi libri equivale ad avere un compagno fedele? Le sue storie che preferisco sono, in apparenza, quelle relative a un poeta in difficoltà, che cammina per la città, magari va a bere qualcosa con un altro poeta e poi resta sveglio fino a tardi a parlare di poesia. Il che, per come lo sto descrivendo, potrebbe suonare noioso, cosa che non è affatto. La cosa più affascinante degli esseri umani è che abbiamo relazioni. Relazioni che non hanno limiti. Non c’è possibilità di porre fine alla discussione eterna sull’esperienza di essere vivi tra altri esseri umani. Richard Yates, Gerard Murnane, Denis Johnson, Alice Munro. Sono questi gli scrittori che ho letto di più negli ultimi dieci anni e che hanno significato molto per me. Quarant’anni fa erano Doestoevskij, Kafka, Gogol, Italo Svevo, Hemingway. Trent’anni fa erano Michael Ondaatje, Kazantzakis, Evan S. Connell, John Fante.

Con che formazione verrai a suonare in Italia? Cosa dobbiamo aspettarci da questi imminenti show?
Sarò da solo. Magari potrei far qualcosa con il cantautore che aprirà i concerti, Jerry David DeCicca, se se la sente. Ogni volta che sono in partenza per un tour cerco prima di tutto di trovare una nuova porta da attraversare. Una porta con una nuova stanza dietro. Credo di averla aperta venerdì. Non lavoro nei fine settimana, a meno che non stia succedendo qualcosa di importante. Oggi è lunedì e dovrei aprire quella stanza che potrei aver aperto. Lo farò dopo questo colloquio. 

Molti artisti che vengono in concerto da noi fanno spesso riferimenti alla politica statunitense, consci probabilmente del fatto che un personaggio come Donald Trump accentri l’attenzione in tutto il mondo. Qui ci facciamo un’idea dai giornali e dai filmati, ma mi piacerebbe sapere qualcosa da chi vive davvero il paese… Cosa succede in America?
È difficile capire cosa sia vero e cosa falso. Il che mi fa pensare che non esistano il vero e il falso. Non esistono un vero e un falso unificati, dove il vero è attaccato al falso su una stessa moneta. Stiamo giocando con due monete diverse. O forse anche più di due. Ma so che c’è una verità. Una verità che dobbiamo identificare in noi stessi, non una verità che dobbiamo scoprire in altre cose. Dopo il lockdown, il mondo si è rivelato: è stato come una lente di ingrandimento puntata sul modo in cui il mondo funziona. Ora non possiamo più non vederlo, nonostante gli sforzi per farcelo dimenticare.

C’è a tuo avviso una divergenza tra l’immagine che viene proiettata dai media e la situazione reale?
Sì. Tutti hanno un’agenda, qualcosa che cercano di proteggere: il loro potere, i loro soldi. I politici sono solo attori. Ed è meglio guardare i film o leggere storie nei libri, piuttosto che dare peso a questi attori politici sfigati, più simili a wrestler professionisti e a star di soap opera, che a personaggi dotati di vera complessità.

Che riflessi ha la politica, nel suo senso più ampio, sulla tua musica, sia dal punto di vista logistico e di organizzazione dei concerti, che tematico con riflessi sui testi delle tue canzoni?
È una domanda che mi sono posto più volte, soprattutto quando sto per partire in tournée. Quando si è in tour, si esce da se stessi, si abbraccia il non conosciuto. Si cerca di entrare in comunione con questi luoghi strani e con queste persone mai viste. Mi piace che tu dica «organizzare concerti». Mi fa tornare in mente le mie radici punk (almeno come fan), all’epoca in cui andavo a concerti punk dei quali potevo avvertire l’organizzazione che c’era dietro. Si trattava sempre di una collaborazione, di un accordo, ma con l’imprevedibilità della performance. Prendiamo ad esempio un Paese come l’Italia: ne leggo nei giornali, ne ho una percezione culturale attraverso i film, la musica, il cibo. Come si ripercuotono le politiche italiane su di me, che sono un estraneo? Tutto questo si applica a me o noi, come spettatori e pubblico? Siamo in uno spazio separato, non legato alla politica del giorno? È una tregua? Ci incontriamo in un’altra sfera che non ha nulla a che fare con il nome sulla mappa? Non ci stiamo forse incontrando come pari che cercano di trovare qualcosa insieme? L’atto di fare e ascoltare musica non è forse una libertà, una visione del nostro io futuro come vogliamo che sia? Queste le domande che mi pongo.

Un ringraziamento particolare va ad Andrea Tacchetti e Raffaele M. Petrino per l’ideazione di molte domande.

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