Foto: Lino Brunetti

In Concert

Bill Ryder-Jones live a Lugano (CH), 29/6/2016

Con una programmazione che denota sicuramente buon gusto – Israel Nash Gripka, Mac De Marco, Kurt Vile, Songhoy Blues, Adam Green, Hindi Zahra – la sezione Rock’n’More dell’ancor più ampio Longlake Festival di Lugano, era (e per quel che rimane, ancora è) appuntamento irrinunciabile se affamati di buona musica, ascoltata e vista come si deve, inoltre in un contesto indubbiamente fascinoso e reso simpaticamente confortevole quale il boschetto Ciani, il parco cittadino posto proprio sulle sponde del lago.

La cosa migliore, in effetti, sarebbe stata assistere a tutte le date, ma un po’ gli impegni, un po’ il lavoro, non hanno proprio reso possibile la cosa. Il buon Zambo vi aveva già raccontato il concerto lì tenuto da Israel Nash, mentre noi siamo riusciti a recarci nella cittadina svizzera per l’esibizione dell’inglese Bill Ryder-Jones. Molti di voi ricorderanno della sua lunga militanza nella band pop-rock psichedelica dei Coral (tra le loro fila per 12 anni), dei quali era il chitarrista solista, abbandonati per dar vita ad una carriera solista che finora ha fruttato una colonna sonora e ben tre album, l’ultimo dei quali, l’ottimo West Kirby County Primary, uscito solo qualche mese fa.

Giovanissimo all’aspetto – dimostra anche meno dei suoi 33 anni – accompagnato da una band in assetto classicamente rock (seconda chitarra, basso, tastiera e batteria), Ryder-Jones si è trovato di fronte ad un pubblico purtroppo realmente sparuto, probabilmente neppure un centinaio di persone, ma in compenso davvero caloroso e partecipe, tanto da sciogliere un po’ del timido imbarazzo che i musicisti sul palco sembravano avere.

Un peccato che il pubblico del festival non se la sia sentita di fare una doppietta – le cronache parlano di un affollatissimo show di Hindi Zahra la sera prima – anche perché, pure in sede live, Bill Ryder-Jones ha dimostrato di essere un signor songwriter, portatore di un modo d’intendere la canzone rock in bilico tra l’introversione minimalista di certi cantautori depressi anni ’90 e il fragore elettrico dell’indie-rock di marca Pavement. Se il nome di Mark Linkous e dei suoi Sparklehorse hanno significato per voi, una certa comunanza ce la potreste trovare.

Buona parte del concerto s’è sviluppato attraverso ballate elettriche mai troppo concitate, pervase da un bel gusto melodico, ma pure da un sottile velo di malinconia agrodolce, validamente supportate da una band capace di donare le giuste sfumature sonore al mood di pezzi come Catherine And Huskisson, Let’s Get Away From Here, Daniel, Wild Roses, la cover di Two Lines dei Lightships.

Toccante la parte centrale dell’esibizione quando, rimasto solo sul palco, con solo l’ausilio della sua chitarra, Ryder-Jones ha messo in campo il lato più introverso e folk del suo fare musica, con pezzi dolenti e tremolanti del calibro di By Morning I, Seabirds e Put It Down Before, quasi scusandosi col pubblico e promettendo il pronto rientro on stage della band. Cosa che avviene subito dopo con una notevole Two To Birkenhead, con la conclusiva Satellites, tra i momenti più concitati, distorti ed elettricamente esaltanti dell’esibizione, in cui la band ha finalmente modo di suonare a tutto volume e lanciare le chitarre in furiosi dialoghi younghiani.

Dopo un’ora o poco più salutano e scendono dal palco, lasciando la voglia di qualcosa ancora. Il tempo di un rapido bis in solitaria, richiesto a gran voce, ma concesso per il rotto della cuffia e poi, inesorabilmente, tutti a casa.

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