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Can’t you hear me knocking, in ricordo di Bobby Keys (1943-2014)

A suo nome aveva fatto un disco solo, omonimo, uscito per la Warner francese nel 1970 (in copertina c’erano lui, il suo strumento e l’immancabile bottiglia di liquore) e neanche irresistibile nel suo pigro mescolare jazz trasandato e spruzzate caotiche di rock un po’ generico, ma nonostante questo, Bobby Keys mancherà a milioni di appassionati di musica. Gli stessi che hanno avuto modo di ascoltarne il leggendario sassofono, contralto, baritono o tenore (la sua specialità), tanto impreciso sotto il profilo tecnico quanto espressivo, sensuale, lascivo, spesso notturno e romantico, in una parola sola inconfondibile, in centinaia e centinaia di album altrui, da quelli notissimi dei Rolling Stones a quelli forse meno celebri del conterraneo Joe Ely (in studio lo trovate su Lord Of The Highway del 1987, ma andrebbe recuperato a tutti i costi l’esplosivo Live In Chicago, registrato lo stesso anno e pubblicato nel 2009), da quelli mainstream degli amici Joe Cocker, Eric Clapton e John Lennon a quelli indie e cultizzati dell’imprevedibile Van Dyke Parks (direttore d’orchestra del nostro sui tramonti calypso di Clang Of The Yankee Reaper [1975]).
Di fronte a personaggi come Keys, larger than life più o meno in tutto, dal consumo di alcolici all’assunzione regolare di stupefacenti («Fumo marijuana da più di cinquant’anni e non salterei un solo giorno, a meno che non mi trovassi in prigione», aveva detto. «Sono un fumatore accanito, lo sono stato, lo sarò e non ci trovo nulla di male a parte il prezzo»), si rischia in un attimo di scivolare nell’aneddotica spinta, nella gara a elencare l’impresa più folle o la stravaganza più vistosa. Eppure, al di là degli episodi clamorosi per davvero, per esempio quello del televisore lanciato dal decimo piano di un hotel nel 1972, durante il tour americano degli Stones (scena visibile anche in Cocksucker Blues, il famigerato, quasi irreperibile documentario sulla band diretto dal fotografo Robert Frank), tutta la vita di Keys è stata vissuta col pedale dell’acceleratore di continuo schiacciato al massimo e la musica si è adattata di conseguenza, saltando fuori dagli amati sax in note lunghe e sofferte, in sputi di poesia spontanea, in vibrazioni dense di timbrica e colore, in verbose colonne d’aria e suoni capaci di far inorridire puristi, tecnici e fanatici del virtuosismo, sì, ma al tempo stesso in grado di alzare almeno dieci centimetri di pelle d’oca a chiunque abbia dedicato al rock’n’roll una porzione non irrilevante della propria esistenza.
Bobby Keys, nato Robert Henry a Slanton, Texas, il 18 dicembre del 1943 (lo stesso, identico giorno di Keith Richards), aveva mosso i suoi primi passi nella scena di Lubbock, la cittadina dove il padre aviatore aveva trasferito la famiglia e dove il giovane e poco controllato erede poteva sgattaiolare fuori di casa e assistere, nei locali più malfamati della periferia, ai concerti di Muddy Waters e Howlin’ Wolf. Folgorato a 12 anni da un’esibizione di Buddy Holly (il quale suonava all’inaugurazione di una pompa di benzina), iniziò a esercitarsi sul sassofono nella band delle scuole superiori, aiutato nella lettura e nella trascrizione delle partiture da un altro musicista in erba, il chitarrista Sonny Curtis, futuro autore di classici quali Love Is All Around e I Fought The Law. Prima ancora di compiere vent’anni, all’inizio dei ’60, Keys già teneva concerti per il sud degli States con la band di Bobby Vee, e fu proprio accompagnando questi alla Fiera Internazionale dell’Adolescenza (!) di San Antonio, nel 1964, che vide per la prima volta i Rolling Stones: Mick Jagger e soci interpretavano un’elettrizzante versione della Not Fade Away di Holly e, sebbene le strade dei due non fossero ancora destinate a intrecciarsi (ci sarebbero volute altre quattro stagioni), il nostro intese la coincidenza come presagio di un’inevitabile, imminente collaborazione tra spiriti affini. In seguito, Keys avrebbe partecipato ai dischi più americani del gruppo, all’orgia gospel di Let It Bleed (1969), al baccanale rockista di Sticky Fingers (1971) e ai frammenti tra country, r’n’r e musica nera di Exile On Main St. (1972), strusciando e facendo miagolare il sax sul country-rock straccione di Sweet Virginia, sulla travolgente parata afrocubana di Can’t You Hear Me Knocking, sul funk caracollante e rootsy di Live With Me, sul rock&roll-blues al fulmicotone di Brown Sugar e molte altre; avrebbe poi continuato a partecipare a diversi tour (compreso l’ultimo), altri lavori discografici e numerose baldorie (nell’autobiografia di Richards, Life [2010], si trovano descrizioni di vari momenti di spasso ai limiti della legalità, compresi uno sfiorato arresto per possesso di eroina nell’aeroporto di Honolulu, Hawaii, e un concerto belga del ’73 da Keys “bucato” perché troppo compreso a divertirsi, con una giovanissima ragazza francese, in una vasca piena di champagne, e altrettanti se ne trovano nel memoir dello stesso Keys, dal titolo Every Night’s A Saturday Night, uscito per i tipi di Counterpoint nel 2012), senza mai staccarsi da una fratellanza musicale costruita senz’altro, inutile negarlo, su soldi e divertimento, ma pure su un modo comune di intendere la vita, la musica, le passioni.
Dall’incontro con gli Stones in poi, per Keys fu una strada in discesa, tra bevute omeriche e notti interminabili: partecipò – era il marzo del 1974 – al leggendario «lost weekend» a base di brandy Alexander e cocaina di John Lennon, Harry Nilsson, Keith Moon e Ringo Starr (e suonò nei dischi di tutti e quattro), continuò a bere come un invasato anche quando, nella seconda metà degli ’80, assunse la “direzione artistica” del locale Woody’s On The Beach (un club di Miami proprietà di Ron Wood) e si diede infine una ripulita prima di raggiungere i sessant’anni, in primo luogo per poter continuare a esibirsi dal vivo in compagnia dei compagni di sempre. Difficile, al di fuori del trittico impareggiabile realizzato con gli Stones, scegliere un solo intervento cui affidare il compito di suggerire tutte le sfumature del gesto rockinrollista, sgraziato, sguaiato e nondimeno ogni volta gonfio di emozione e di intensità del sax di Bobby Keys. Si potrebbero candidare The Sun, Moon & Herbs (1971), capolavoro perduto, purtroppo poco noto e molto vanmorrisoniano di un Dr. John in vena di sontuose, caotiche, improvvisate prolusioni “astrali”, o il Warren Zevon sarcastico e sardonico al tempo stesso di una Mohammed’s Radio (dall’album omonimo del 1976) debitrice, per carattere e timbro, della vocazione nostalgica del mentore Jackson Browne. Lo Shawn Phillips al solito esoterico e classicheggiante di Bright White (1973), produzione alla quale il contributo di Keys regala inedite sfumature jazzy, oppure il Marc Benno bluesy, sottile, spartano e laid-back di Ambush (1972), oppure ancora, nello stesso anno, il John Martyn alchemico e sperimentale del cupo Inside Out. O perché no i Delaney & Bonnie agresti e malinconici dell’indimenticabile Motel Shot (1971), il George Harrison enciclopedico, religioso e pop di All Things Must Pass (1970), il sorprendente Donovan non più menestrello hippie bensì hard-rocker di Cosmic Wheels (1973), gli Humble Pie pieni di grinta, determinazione e soul del sottovalutato Rock On (1971).
Per questioni di anagrafe e di affetto, chi vi scrive opta per la City Drops Into The Night di Jim Carroll (dall’esordio Catholic Boy [1980]), distorta, punkeggiante seppure liricissima ballata rock che il sassofono di Keys frusta in lungo e in largo, evocando a ogni rantolo le notti al neon della New York più buia e degradata, le allucinazioni verbali della poesia beat e, in generale, un intero underworld di tossici, perdenti e puttane raccolti intorno a un’ultima speranza, o a un ultimo, definitivo grappolo di note tristi e selvagge. Bobby Keys è morto martedì scorso, nella sua casa di Franklin, Tennessee, sembra a causa dell’inesorabile aggravarsi di una forma di cirrosi contratta molto tempo fa. Aveva settant’anni.

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