
A TRUE ROCK’N’ROLL SURVIVOR: INTERVISTA A ELLIOTT MURPHY
Durante i 4 giorni di aprile nei quali ho partecipato alla Born To Cruise — la crociera dedicata ai fans di Bruce Springsteen — ho avuto modo di viaggiare insieme ad Elliott Murphy e il suo approccio verso di me e il Buscadero è stato subito cordiale. Avevo partecipato alla crociera anche per poterlo liberamente intervistare de visu: purtroppo, alle mie insistenti richieste, Elliott rispondeva sempre (con cordialità), «Domani la facciamo». Arrivato all’ultimo giorno mi ha però comunicato che, a causa di problemi alla voce, non avrebbe voluto rischiare di compromettere il concerto, suggerendomi così di inoltrargli le domande via e-mail. Cosa che ho fatto non appena tornato: Murphy mi ha sollecitamente risposto nella bella intervista qui trascritta e nella quale emerge davvero il suo status di artista multimediale completo, ma al contempo gentile, disponibile e soprattutto aperto e riconoscente verso il ruolo importante svolto da riviste come il Buscadero nel sostenere il suo percorso. La sua carriera (oltre 40 dischi in studio, senza contare i live e gli antologici) è troppo lunga per poterla riepilogare qui; meglio lasciare spazio ai suoi ricordi e alla sua vita davvero rock.
Ricordo che nel 2014 tu eri international guest del Buscadero Day: ti ricordi di quella giornata? Sei peraltro uno dei singer-songwriter più apprezzati dai nostri lettori.
Naturalmente ricordo quell’incredibile giornata del luglio 2014, anche perché c’erano tanti artisti che ammiravo ma con cui non avevo mai condiviso il palco. Fui particolarmente contento di incontrare Chuck Prophet, sono sempre stato un suo fan. E tutti condividevamo un enorme camerino; tutto era così bello e inusuale. Riviste come il Buscadero sono state essenziali sia nel diffondere il vangelo del rock’n’roll in tutto il mondo, sia nel dare spazio a così tanti seri e talentuosi giornalisti. Io sono davvero debitore alle riviste che hanno sempre prestato attenzione alla mia musica. Personalmente, essere apprezzato in Italia dai lettori del Buscadero mi ha dato molta soddisfazione perché, quando per la prima volta arrivai a Roma, nel 1971, io suonavo per strada, pieno di sogni rock, la maggior parte dei quali si sono realizzati.
Come descriveresti l’esperienza della Born To Cruise, incontrare molti fans, vari artisti giovani, suonare nel teatro della nave MSC Fantasia? Ti ho visto suonare con Roberta Finocchiaro, mentre i musicisti della tua band hanno suonato con tantissimi altri.
Born To Cruise è stata la mia prima esperienza a bordo di una nave enorme come la Fantasia, così non posso davvero dirti cosa mi aspettassi. Ovvio, il focus dell’evento era Bruce Springsteen e mi aspettavo di incontrare i suoi fan italiani provenienti da ogni parte d’Italia e anche dall’estero. Avevo incontrato Alberto Lanfranchi — l’organizzatore dell’evento — durante un concerto di molti anni fa e lui e il suo team hanno mostrato con me e la mia band un’encomiabile capacità organizzativa. Gli estimatori di Bruce Springsteen sono spesso anche i miei e, come sono solito dire, dopo la mia famiglia i miei appassionati sono il tesoro più grande. Molti di loro, quando mi hanno incontrato, mi hanno ricordato di miei show italiani a cui avevano partecipato. Inoltre, ho incontrato alcuni degli altri artisti a bordo ed eseguire Little Red Rooster con Roberta Finocchiaro è stato molto divertente!
Quali sono stati i musicisti che più ti hanno influenzato nella tua giovinezza?
Sono cresciuto nell’«età d’oro» del rock’n’roll e ricordo ancora di aver visto per la prima volta sia Elvis Presley sia i Beatles in televisione, da giovanissimo. La cosa più importante, per me, fu quella che mi piace chiamare la guitar explosion dei ’60, perché quando cominciai a suonare la chitarra — era il 1961 — avevo solo 12 anni ed era molto difficile imparare il rock da un insegnante. Così la mia generazione di musicisti (Bruce, Tom Petty, Tom Waits etc.) ha imparato ascoltando i dischi a 45 giri, spesso facendoli girare più lentamente affinché potessimo capire le parole. Le mie influenze vanno dai gruppi folk come il Kingston Trio e Peter, Paul & Mary fino al surf dei Beach Boys e agli strumentali dei Ventures. E poi arrivò Bob Dylan e diede davvero un calcio che spalancò la porta delle liriche nella musica pop. Quando Like A Rolling Stone finì alla radio, per me fu più importante dello sbarco dell’uomo sulla luna. I Beatles apparvero come quattro dei discendenti dai cieli, e questo cambiò ogni cosa.
Mi piacerebbe sentire il tuo punto di vista interno alla storia della musica rock. Hai trascorso la maggior parte della tua vita dentro il music biz, sei entrato in contatto con molti altri artisti e sei vissuto a NYC durante il periodo più eccitante, non solo in senso musicale, della città.ù
Sono cresciuto a Long Island, basicamente un sobborgo tentacolare di NYC, e ho suonato in gruppi locali da quando avevo 14 anni. Uno di essi, The Rapscallions, vinse la Battle Of The Bands newyorchese del 1966 e ci fu promesso un contratto discografico. Di fatto non successe nulla, perché il padre della nostra cantante non voleva che sua figlia si confondesse con lo show business. Ma era tutto quello che avevo sempre voluto e non ho mai mollato. Quando andai in Europa, nel 1971, ho incontrato molte persone interessanti, specialmente quando ebbi una parte nel film di Federico Fellini intitolato Roma, le quali mi dissero che, quando fossi tornato, avrei dovuto stazionare davanti al Max’s Kansas City di NYC. Così, insieme a mio fratello Matthew, è proprio quello che facemmo. Conobbi i Velvet Underground e le New York Dolls. La ragione per cui quel periodo era così eccitante era perché non mancavano i club dove suonare (anche se non ho mai amato il CBGB’s) e le case discografiche erano facilmente abbordabili. A pochi mesi dal mio ritorno a New York, firmai un contratto discografico con la Polydor e subito dopo uscì il mio primo album, Aquashow. La mia foto apparve su Rolling Stone e Newsweek, e da allora la mia vita non è più stata la stessa.
Quindi non è stato difficile firmare per una major?
Nel mio caso fu molto facile e veloce. Da quando io e mio fratello cominciammo a bussare alle porte delle case discografiche per suonare loro il nostro demo con 5 canzoni, ottenemmo subito udienza. Ero un compositore prolifico e le major ne erano contente. Ma avevo una specifica idea di come volevo fossero registrate le mie canzoni e questo, talvolta, causava dei problemi. La Polydor mi mandò a lavorare con Thomas Jefferson Kaye a Los Angeles, ma fu un disastro, così tornammo a NYC e registrammo al Record Plant, con Peter Siegel alla produzione, mentre le NY Dolls registravano in un altro studio. Ma la maggiore difficoltà fu che tutto successe così velocemente e io non ero preparato all’attenzione dei media seguita alla pubblicazione di Aquashow.Mi ci volle del tempo per imparare ad essere il leader di una band e un buon performer.
I tuoi primi album, da Aquashow (1973) fino a Just A Story From America (1977) furono apprezzati dalla critica, che ti annoverò tra i «nuovi [Bob] Dylan». Per alcuni, vedi Sammy Walker, un’etichetta equivalente a una specie di maledizione, ma penso che ogni singer-songwriter debba confrontarsi con Dylan e la sua influenza.
Dylan è il Picasso del rock’n’roll e ogni singer-songwriter, da questo punto di vista, ha verso di lui un debito inesauribile. Spero che nel futuro gli storici saranno capaci di inserire in un contesto adeguato i singer-songwriter perché si tratta di un’arte in via di estinzione. Oggi le canzoni di successo hanno spesso cinque o più compositori, e t’immagini come si possa scrivere una storia personale con così tanti chef intorno al piatto? Tutto quello che ho sempre voluto è stato raccontare le mie storie, attraverso la musica o la letteratura; la mia visione personale di questo pazzo e meraviglioso mondo in cui viviamo. E Bob Dylan ha dato ad ognuno di noi il permesso di fare questo… per un momento.
Poi cos’è successo tra te e gli Stati Uniti? Hai lasciato l’America e hai scelto di venire in Europa. Sei felice di questa scelta?
Venire in Europa fu molto importante per me, ebbe tante conseguenze positive che non avrei potuto prevedere mentre le cose accadevano. Sono arrivato in Francia nel 1989, subito dopo ho incontrato mia moglie Francoise. Poi c’è stata la nascita di nostro figlio Gaspard: ho trovato una vera vita famigliare a Parigi, cosa che non avevo prima. I francesi mi hanno accolto con calore e mi hanno fatto l’onore di nominarmi Chevalier de l’Ordre des Arts et des Lettres nel 2015. Ho incontrato Olivier Durand, il mio incredibile chitarrista, e siamo partner musicali da 29 anni. A chi mi chiede se mi mancano gli USA io spiego che, agli inizi della mia carriera, l’energia di NYC fu vitale, ora sono in un’età diversa e ho bisogno tanto di serenità quanto di eccitazione.
Sei anche critico musicale, scrittore di romanzi e saggi: un moderno troubadour che cerca di raggiungere le persone attraverso la narrazione. Raccontare storie è importante per capire la vita?
La letteratura è la mia religione e il rock’n’roll la mia dipendenza. Ho bisogno di entrambi per mantenere un certo equilibrio spirituale. È difficile individuare da dove le mie liriche arrivino, ma questo vale per chiunque altro. Di sicuro, i racconti di Francis Scott Fitzgerald, Ernest Hemingway, Jack Kerouac e molti altri hanno cambiato il mio modo di creare. E la poesia di Allen Ginsberg, Arthur Rimbaud e Walt Whitman è qualcosa che mi porto appresso. Così, cosa sono? Un poeta, un musicista o un moderno troubadour, o qualcos’altro per cui non hanno ancora inventato una definizione? Singer-songwriter sembra essere una definizione troppo banale per qualcuno come Leonard Cohen, non trovi?
Cosa mi dici del film spagnolo Broken Poet, da te interpretato?
Broken Poet è liberamente basato su un mio racconto The Lion Sleeps Tonight, ispirato da Jim Morrison. Racconta di un cantante rock che se ne va dalla tremenda fama e cerca di vivere anonimamente a Parigi. Qui c’è un mistero perché non sappiamo mai se è davvero lui o no. Ma il film Broken Poet è diverso dal racconto, perché io interpreto il ruolo di Jake Lion, così suppongo ci sia, nella storia, anche molto di me. Il mio sogno è che un domani ci possa essere un film sulla mia storia: io ho avuto un viaggio sorprendente, nato dalla tragedia, in cui sono stato capace come la fenice di risorgere e viaggiare per tutto il mondo. Sono il sopravvissuto a un business, quello musicale, dove il successo viene misurato dalla sopravvivenza. Nessun altro ha una storia come la mia, con così tanti alti e bassi, ma sono ancora qui a raccontarla. C’è stato un film su Dylan e presto ce ne sarà uno su Bruce, così spero di essere io il prossimo!
Che mi dici della tua lunga amicizia con Bruce Springsteen e Lou Reed?
Ho incontrato Lou Reed prima di Bruce Springsteen, perché nel 1972 ho scritto le note per Live 1969 dei Velvet Underground, uscito poi nel ’74. Per qualche ragione, Lou chiamò mia madre Josephine e, alla fine della conversazione, lei gli disse che sarei stato molto contento nell’apprendere della sua telefonata, perché ero un suo grande ammiratore. Pochi anni dopo, Lou mi portò alla RCA e parlò bene dei miei album nelle interviste. Gli sono davvero molto grato. L’ultima volta che ci siamo incontrati, a Parigi, negli anni ’90, dopo avergli raccontato cosa mi fosse successo dai ‘70 in poi, il mio trasferimento a Parigi e tutto il resto, disse: «Però, alla fine, le cose hanno girato per il meglio, non trovi Elliott?». Fu come la benedizione di un prete. Lou è stato per me un fratello maggiore, mentre Bruce e io condividiamo la stessa età e abbiamo cominciato le nostre carriere allo stesso momento. Aquashow e The Wild, The Innocent & The E Street Shuffle sono stati recensiti su Rolling Stone in contemporanea. Finendo entrambi nel calderone dei «nuovi Dylan» sebbene ritenga che nessuno suoni davvero come Bob. Mi piace sempre dire che Bruce Springsteen è riuscito a far tornare il sorriso al rock’n’roll. Con me è stato incredibilmente generoso, non solo cantando su Everything I Do (Leads Me Back To You) nel mio Selling The Gold, ma invitandomi molte volte sul palco con lui. Anche con mio figlio Gaspard, a Parigi, davanti a 80.000 persone. E in aggiunta, Bruce compare nei due miei film, The Second Act Of Elliott Murphy e Broken Poet. Lui è proprio un uomo meraviglioso e premuroso. Ogni volta che riesco a incontrarlo per me è la concessione di una grazia.
La tua storia comincia con The Last Of The Rockstars e continua con Old Timer, in cui canti «Sono un sopravvissuto del rock’n’roll». Però continui a percorrerne le strade. Quale potrebbe essere il tuo futuro nel mondo del rock?
La verità è che nessuno abbandona quello che sta facendo, sia esibirsi, scrivere canzoni sia fare dischi. Guarda Bruce, gli Stones, Paul McCartney e Dylan. Tutti loro potrebbero facilmente ritirarsi, con benefici per la salute. La loro fama è ormai mondiale. Perché continuano? Penso per la stessa ragione per cui continuo a fare concerti e cioè perché non c’è niente come la magia che scaturisce dal contatto col pubblico, quando sei sul palco. È un’energia speciale, quasi alchemica. Non posso immaginare che smetterò di scrivere canzoni. È una specie di terapia di lunga vita. L’ho fatto per oltre 50 anni. Ricordo una volta, quando Bruce e io stavamo parlando della triste fine di Elvis Presley, e ci trovammo d’accordo su come questa fosse da imputare al fatto di non aver più scritto canzoni. Lui non si guardava dentro in maniera approfondita, non doveva più esaminare le sue emozioni confrontandole con melodia e ritmo. Se sei capace di fare questo, allora hai un dono al quale non puoi rinunciare, a prescindere da quale parte ti arrivi.
Eccoci alla fatidica, ultima domanda: i tui cinque dischi da isola deserta?
È sempre una domanda difficile, ma se posso portare solo 5 album, allora è meglio portarne qualcuno doppio, no? Per cui la mia scelta potrebbe essere questa: Rolling Stones, Exile On Main St.; Bob Dylan, Blonde On Blonde; Velvet Underground, Live 1969; Beatles, White Album. E mi porterei anche Kind Of Blue di Miles Davis, perché mi piace ascoltare jazz quando mi sveglio. E naturalmente, più importante ancora, porterei con me il mio primo Aquashow perché è lì che è nato Elliott Murphy…
Non posso aggiungere altro alle parole di un artista completo e sincero come Elliott Murphy, tranne riportare il suo commento alla mail in risposta alle mie domande:
Hi Andrea, attached is the interview. Good questions — I enjoyed answering. See you down the road. Best, Elliott.
Grazie a te, Elliott !
LE INTERVISTE SULLA NAVE
Durante la Born To Cruise, ho avuto la possibilità di intervistare alcuni degli artisti e, grazie al videomaker Rocco, le interviste sono state filmate: le trovate, montate una via l’altra, nel filmato che trovate qui sotto. È stata una bella occasione per incontrare musicisti sia italiani che stranieri e confrontarsi con loro sulla musica che amiamo, non solo quella di Bruce Springsteen, cui la crociera era dedicata.
Ecco una breve presentazione, dei musicisti intervistati, nell’ordine in cui appaiono nel video.
Simone Bertanza è un singer-songwriter, one-man band di soli 23 anni, nato a Brescia e che si è avvicinato a Bruce Springsteen grazie alla nonna, che nel 2008 lo portò al concerto del Boss a San Siro (passano, inesorabili le generazioni!). Le sue canzoni sono prevalentemente in inglese ed ora, per cercare nuovi sbocchi, emigrerà in Australia (gli ho chiesto di farci avere news della scena Aussie).
Roberta Finocchiaro catanese è invece del 1993. Chitarrista precoce, entra nel roster della produttrice Simona Virlinzi una decina di anni fa. Ha registrato due album in USA con musicisti americani e ha partecipato anche al Buscadero Day. La sua versione di New York City Serenade di Bruce Springsteen è davvero da brividi.
Alexandra Jardvall è una grintosissima rocker e singer-songwriter che fin da giovanissima aveva deciso di “essere la Bruce Springsteen femminile”. La vita, però, ha frapposto al raggiungimento di questo risultato una lunga carriera di performer musicale sulle navi da crociera. Il suo amore per il Boss era talmente evidente, che la gente continuava a richiederle solo le cover di Springsteen, tanto che ne è diventata un’interprete tanto grintosa quanto raffinata.
James Dalton mi ha sorpreso per la sua grinta di suonatore di armonica e di cantante con una cover di Born In The USA per sola armonica e canto. Ho poi scoperto che, oltre ad essere nato in New Jersey, è pure un “Dead Head” (ha suonato con l’ultimo tastierista dei Grateful Dead) ed un amante di Warren Haynes; quindi un Buscaderiano DOC!
Fabio Melis è un rocker sanguigno, innamorato del sound di Asbury Park e di Bruce Springsteen. Già noto al Buscadero, abbiamo recensito il suo ultimo disco Runaway Train del 2022 molto positivamente.
Luca Milani anche lui un rocker, era decisamente il meno Springsteeniano del lotto (ma la sera finale della crociera sarà lui a vincere il Premio Cover Me). Ben noto al Buscadero, che ha recensito tutti i suoi dischi, propone il suo rock debitore dei Clash quanto degli Who, intriso di sonorità grunge, derivanti dal suo amore per i Nirvana.