Recensioni

Brian Eno, The Ship

Brian-Eno-The-Ship-1024x1024BRIAN ENO
The Ship
Warp/Self
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The Ship, il nuovo album di Brian Eno, è nato seguendo due precise idee: dal punto di vista sonoro, è stato concepito sperimentando con tecniche di registrazioni tridimensionali – ed infatti, una versione alternativa in 3D dell’intero lavoro verrà portata in giro per il mondo, sotto forma d’installazione artistica – mentre da quello tematico si è sviluppato partendo dalla fascinazione di Eno nei confronti della Prima Guerra Mondiale e dal suo legame con la tragedia del Titanic, così dallo stesso autore esplicitata: “Il Titanic era la nave inaffondabile, l’apice del potere tecnico umano, creato per essere il più grande trionfo dell’uomo sulla natura. La Prima Guerra Mondiale è stata la Guerra della tecnologia militare, nata per essere il trionfo della volontà e dell’acciaio sull’umanità. Il fallimento catastrofico dei due ha posto le basi per un secolo di esperimenti drammatici sulle relazioni tra gli esseri umani e i mondi che essi creano per se stessi. Stavo pensando a quei vasti campi di terra agonizzante in Belgio durante la Prima Guerra Mondiale e l’immenso e profondo oceano dove il Titanic affondò, e a quanta poca differenza fece tutta quella speranza e delusione umana. Esse persistono e noi passiamo in una nuvola di chiacchiere”.

Formato da due lunghe tracce, la seconda delle quali divisa in tre diverse sezioni, The Ship è un album dove la forma canzone si sfalda in oceaniche e liquide campiture sonore, in fluttuanti reflussi musicali nel quale un brulicare polifonico di voci fantasmatiche si erge come testimonianza di eventi risonanti nel presente. Accade soprattutto in The Ship, oltre venti minuti di drones ambientali, quasi una sorta di placenta dalla quale s’erge la voce ieratica di Eno, attorniata da questo mormorante e lontano eco di spettri e, a volerla dire tutta, pure da qualche effetto sonoro al confine con la New Age. Senza alcun dubbio fascinosa, ma in parte anche un po’ estenuante.

Piace di più Fickle Sun, come si diceva divisa in tre parti. La prima, omonima, si allunga anch’essa per quasi venti minuti, ma ha un andamento decisamente più ondivago, con una costruzione tale da far pensare ad una sorta di teatrale rappresentazione: si apre su tappeti di synth siderali, un battito sordo, gli sfrigolamenti di una tromba effettatissima; la voce di Eno prende qui una melodia che pare un misto tra un pezzo dei Dead Can Dance e un traditional british folk; poi la musica monta verso lidi orchestrali, tra bordoni di chitarra distorta, fiati e percussioni, prima di scivolare verso un finale astratto/elettronico, dove pure la voce si fa più impersonale (è filtrata da un vocoder). La seconda parte, The Hour Is Thin – il cui testo poetico è stato assemblato ricorrendo ad un software nel quale erano stati inserite relazioni sul naufragio del Titanic, canzoni della Prima Guerra Mondiale, avvisi di hacking e altro materiale, in modo che il programma generasse migliaia di righe di testo poi riassemblate e riordinate nel modo in cui le troviamo ora – vede l’attore Peter Serafinowicz leggere questa poesia, accompagnato dal pianoforte. La terza, invece, è una quanto mai sognante cover di I’m Set Free dei Velvet Underground, chiaramente l’unico momento assimilabile a quello che generalmente viene considerato come canzone.

L’intera opera è ammaliante, avvolgente, sempre decisamente evocativa. Quasi inutile sottolinearlo, né per tutti i momenti, né tantomeno per tutte le orecchie. Se è semplicemente del rock che cercate, quello più che evidentemente non alberga qui.

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