
Chiunque abbia visto in passato o conosca bene i Brian Jonestown Massacre, sa che i loro concerti sono una sorta di terno al lotto: possono essere straordinari, del tutto ordinari o addirittura terribili. Anton Newcombe, il loro líder máximo, non è senz’altro un tipo facile, il suo umore credo possa cambiare radicalmente in base a come si alza al mattino e se ha le palle girate per qualcosa, di certo non lo nasconde. Parlano per questo i litigi sul palco del passato e i continui cambi di line up della formazione, tra l’altro senza che questo abbia mai portato a un qualche reale cambio di sonorità. L’ultima volta che li avevo visti qui a Milano, al Santeria Toscana 31, avevano fatto uno show eccellente, magari non superbo, ma decisamente solido e privo di sbavature. Stavolta, come vedremo, ni.
Quando arrivo all’Alcatraz, seconda di una tripletta di serate iniziata coi Murder Capital la sera prima e completata quella dopo con lo show dei Ride, mi fermo in un baretto fuori dal locale per mangiare qualcosa e vedo che il buon Newcombe si trova lì in compagnia di fan e amici, presumo a sbevazzare in allegria. Sembrerebbe di buon umore.
Ad aprire le danze c’è la band di Berlino ERЯORR, che non conoscevo affatto, ma che scopro essere guidata dal cantante e chitarrista Leonard Kaage, uno che suona la sei corde negli Underground Youth e che ha prestato i propri servigi a band come Holy Motors, The Blue Angel Lounge e gli stessi Brian Jonestown Massacre. Il sound è del tutto in linea con ciò che verra, psichedelia ronzante e ipnotiica, moderatamente oscura e seppellita sotto il fuzz della chitarra. Nulla di nuovo, come è facile immaginare, ma nel suo, davvero niente male.
Quando, non troppo dopo, sono i titolari del concerto a salire sul palco, l’Alcatraz, nuovamente in versione dimezzata, è stavolta pieno come un uovo. I BJM partono con Maybe Make It Right e le prime crepe iniziano a vedersi. Il sound appare del tutto scollegato, Newcombe si sente a malapena, quel tanto che basta però per rendersi conto che è assolutamente out of tune, e appare già piuttosto irrequieto. Al centro della scena come sempre, attorniato da altri tre chitarristi, dal bassista e dal batterista, Joel Gion suona il suo tamburello, ma rispetto al solito appare del tutto assente, molto più stralunato del solito.
Le cose vanno anche peggio con le seguenti Vacuum Boots, That Girl Suicide, Do Rainbows Have Ends, con Newcombe che inizia a muoversi per il palco alla ricerca di un posto dove riesca a sentirsi o dove non abbia il ritorno delle casse orientate sul pubblico che, dice, «gli spaccano le orecchie», il tutto nell’indifferenza del resto della band, alla quale dice «lo so che non ve ne frega un cazzo». Verrà fuori che, più o meno come al solito, durante il pomeriggio, si sono guardati bene dal fare un soundcheck e questi sono i risultati. Gion a un certo punto inizia a barcollare vistosamente e, quando il grado d’assenza raggiunge il limite, abbandona il palco per finire, si presume, direttamente tra le braccia dei paramedici (voci di corridoio mi hanno rivelato che durante il giorno c’aveva dato dentro con di tutto un po’).
Ad ogni modo, se pure tutta la prima parte di concerto appare pericolosamente traballante e precaria e l’interazione e il feeling tra i vari musicisti sembri del tutto nullo, anche se con lunghe pause tra un brano e l’altro per accordarsi, diciamo che da un certo punto in poi, contro qualsiasi previsione, il gruppo si ricompatta, Newcombe pare trovare un posto dove stare e, miracolosamente, il concerto decolla. Magari non diventerà mai del tutto quello della vita, ma con pezzi come Anemone e Nevertheless ingranano finalmente la marcia giusta e tutta la seconda ora può ben dirsi soddisfacente, con la parte finale addirittura esaltante, soprattutto con una Super-Sonic potentissima e devastante. Fosse stato tutto così lo show, ci sarebbe stato da gridare al miracolo, invece è stato il solito prendere o lasciare, il solito mix di luci e ombre.
Noi che i BJM li conosciamo, prendiamo, ma so bene che non tutti la pensano così.