
7 giugno 2025, Anfield, Liverpool — tempio del calcio, della musica e della working class. In uno degli stadi più iconici al mondo, arriva la musica di Bruce Springsteen, il rocker che è stato simbolo della classe operaia, e sembra chiudersi un cerchio.
Musica ce n’è tanta, nella seconda tappa cittadina del Land Of Hope And Dreams Tour, ce n’è per tre ore che diventano epiche quando, accanto al Boss, si presenta Sir Paul McCartney, nella sua città natale. Il cerchio si chiude. Ma andiamo con ordine.
Lo si era capito da Manchester: questo tour ha una forte nota politica e un appello alla partecipazione. «Ho sempre cercato di essere un buon ambasciatore, per l’America», dice il Boss, che dell’America racconta da cinquant’anni le crepe e la bellezza, i sogni e le disillusioni, la fatica e la speranza. «Ciò che sta accadendo è troppo grave per non parlarne, quindi, innanzitutto, grazie per consentirmelo». Non è più lo Springsteen intimo, come nel tour precedente, è un Bruce che chiama a raccolta e parla di un noi: il pubblico, la sua gente, le storie collettive. Non canta quelle canzoni solo perché ognuno possa riconoscervi la propria storia individuale, ma perché ci si ritrovi in un racconto collettivo. Ed è potente. In quel modo di cantare che stringe tra i denti le parole importanti, si è chiamati a partecipare ad una riflessione sulla libertà e sulla necessità di muoversi insieme, alzare la voce, anche cantando: «Get yourself a song to sing/ and sing it ’till you’re done/ Yeah, sing it hard and sing it well» (Death To My Hometown).
Questo essere collettività e non sentirsi soli sembra cucito addosso a una città dalla tradizione operaia, che ha sempre vissuto il senso di solidarietà e partecipazione. E suona benissimo in uno stadio che fa di You’ll Never Walk Alone la sua colonna sonora. Così, sembra ancora più bella la magia che i concerti sanno creare: migliaia di persone a cantare insieme, un linguaggio comune, un’esperienza di appartenenza condivisa. È una proiezione felice di una porzione di mondo possibile, dove «tutte le persone vivono la vita in pace», come cantava uno famoso, nato a Liverpool. E allora «join us, let’s be together», incalza Bruce dopo l’attacco di My City of Ruins, che diventa una preghiera gospel con quel «come on, rise up» che prede allo stomaco.
Il Boss sceglie una scaletta bloccata, dove ogni brano è piazzato lì con un’intenzione precisa. Badlands suona attuale, House Of A Thousand Guitars diventa denuncia precisa e Rainmaker riferimento inequivocabile. Quando ci si aspetta l’inizio dell’encore, all’improvviso l’aria cambia: «Siamo fortunati, stasera, ad avere con noi un giovane di Liverpool… Benvenuto, Sir Paul McCartney!».Anfield è un’esplosione di gioia folle, l’unica esplosione che ogni cielo nel mondo dovrebbe sentir risuonare. McCartney sale, Anfield è ormai in delirio; attaccano Can’t Buy Me Love e lo stadio risponde subito in coro come se fosse la hit dell’estate. È bello e surreale. Non si sa se cantare o ascoltare. Alla fine, la si vive, così come viene, tutta insieme come un’onda, anche se alla fine si beve per la foga. Il medley tra Kansas City e Hey Hey Hey Hey chiude il momento, l’abbraccio tra i due unisce il mito. Non è la prima volta che suonano insieme (c’era stato Hyde Park nel 2012), ma questa è la prima volta di Springsteen a Liverpool con “Macca”: «Incredibile, un sognoche diventa realtà: suonare qui a Liverpool, con Sir Paul McCartney», ripete Bruce raggiante.
I brividi sono tutti per chi sta sul prato, perché quel duetto in quella città, su quel palco, è uno di quei momenti da custodire, da raccontare un giorno con un sorriso… «Io c’ero». Chi ha vissuto Springsteen per decenni, sotto la transenna, fatica ad abituarsi a questo Bruce da scaletta bloccata e poca improvvisazione. Ma a Liverpool, e più in generale in questo tour, si è capito che non è poca autenticità, solo una diversa modalità. Forse siamo noi, più dei suoi concerti, a dover fare pace col tempo che passa. Non improvvisa come una volta, non esiste più la scaletta sempre diversa, ma c’è una narrazione e nell’evoluzione del modo, la sostanza resta quella di 3 ore di musica e performance inarrivabili.
Da sotto il palco ognuno può portarsi via qualcosa di diverso dal racconto di Springsteen, «prendere ciò che gli serve e lasciarsi indietro il resto», ed è la ragione per cui, tra il pubblico springsteeniano, c’è una varietà di generazioni, provenienze, culture e realtà sociali differenti, che è propria solo di quanto unisce e aggrega trasversalmente, senza differenze, e che nel momento storico in cui viviamo resta un miracolo riservato solo a certa musica dal vivo e forse ad alcuni sport. A Bruce Springsteen, e a pochi altri, riesce di sicuro. Questa notte, ad Anfield, era chiaro, ed era impossibile non trovare qualcosa da portarsi a casa.