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In Concert, Speciali

Bruce Springsteen & The E Street Band live a Milano, 3/7/2025

RISORGI AMERICA!

Partecipare a un concerto di Bruce Springsteen non è solo un momento di piacere musicale, o una felice uscita con gli amici e le amiche per ascoltare buona musica. È un fatto vitale, perché all’interno della sua poetica sono nascosti mondi di straordinaria complessità e il suo approccio al pubblico manifesta un desiderio di intimità e coinvolgimento emotivo che non si cancellano col passare del tempo ma rimangono nell’animo di ciascuno, come un pacemaker dello spirito. Con la musica e le esibizioni del diavolo del Jersey non si scherza: ogni concerto è un patto d’acciaio tra emozione e passione, tra passato e futuro, tra carnalità e spirito. Tutto è legato e ogni canzone, ogni gesto, ogni sguardo ai suoi musicisti è congeniale al mantenimento di quel patto che, da decenni, lega lui, la band e il pubblico a un medesimo destino.

Oggi, che abbiamo la possibilità di incrociare in rete tanti suoi concerti, audio o video, è necessario andare indietro nel tempo, quando si cercavano (con lo spirito dell’antropologo) articoli, immagini, bootleg di questo ragazzo di cui si diceva un gran bene oltreoceano e che avremmo visto volentieri, se fosse venuto in Europa, magari in Italia, per poterne pesare le reali doti artistiche. Oppure scoprire che, magari, si trattava di un vento passeggero, di pubblicità, marketing o quant’altro, destinato a essere spazzato via come i tanti nuovi Bob Dylan fino a poco tempo prima impegnati a calcare i palchi del New Jersey o della Grande Mela. Un film già visto, da parte di tanti. Ma così non è stato e, passo dopo passo, l’epopea si è confusa con la realtà e, come ben sappiamo, i concerti dei tour di Darkness e The River (1978 – 1980/1981) hanno dischiuso le porte al mito, inevitabilmente diventato sfolgorante leggenda (anche economica) con il tour di Born In The USA.

Ma prima dell’esplosione mondiale, è fondamentale saperlo e ricordarlo, abbiamo ascoltato con attenzione le canzoni — voce, chitarra, armonica — di Nebraska. Quell’album ha reso necessario riprendere in mano e ascoltare tutti i precedenti lavori di Springsteen per scoprire, quasi fosse una nuova epifania, una poetica inattesa, forse in precedenza ascoltata in maniera distratta perché coperta da una dinamica musicale potentemente rock, perché lui era (ed è), come ha sempre dichiarato, «un prigioniero del rock and roll». Ma l’essere prigioniero di un suono e di un «atteggiamento» non gli ha impedito di farsi avvincere dalle canzoni e storie raccontate da maestri della parola e del «messaggio» come Pete Seeger, Woody Guthrie, Hank Williams, Bob Dylan (ed Elvis Presley). Ciascuno di questi artisti possedeva una porzione di quella miscela esplosiva, fatta di speranza e desideri, empatia e senso di giustizia, che Springsteen ha saputo utilizzare, da grande padrone delle note e delle parole, nel corso della sua carriera.

Lui che ha vissuto l’America delle opportunità, ma anche della povertà, ha saputo custodire, con i piedi per terra, quelle intuizioni che lo hanno portato a non aver mai paura nello schierarsi anche politicamente. Come fece contro Ronald Reagan, in favore di John Kerry con il tour Vote For Change, a sostegno di Barack Obama e, infine, in favore di Kamala Harris. Senza disdegnare bordate nei confronti di Donald Trump. In campagna elettorale, prima, e poi nel corso delle tappe di questo tour. Senza paura di incorrere in alcuna vendetta perché, nel tempo, Springsteen ha mostrato di avere la schiena dritta non per opportunismo ma per senso etico. Per questo è bene ricordare la vicenda dell’afroamericano Amadou Diallo, ucciso innocente dalla Polizia di New York con 19 colpi di pistola su 41 sparati. Da questa tragedia scaturirà la canzone American Skin (41 Shots) e il boicottaggio della polizia di New York ai concerti dell’anno Duemila al Madison Square Garden.

Non mai avuto paura, Springsteen, di raccontare il sogno americano che può trasformarsi in un incubo. Non ha mai lesinato parole su com’è facile finire in miseria se i sogni non si avverano, com’è immediata la tragedia se non ci si accorge che le settimane scorrono sempre uguali e la scala sociale rimane sempre ferma, come ci si ritrova a essere poveri mentre il benessere, non pervenuto, scorre davanti agli occhi, nelle pubblicità, nelle vetrine, sui social. Quella raccontata da Springsteen è un’America permanentemente con i piedi nel passato e la memoria nel passato, con una straordinaria capacità di nascondere le sue parti peggiori fino a quando non appare un «sacerdote» capace di dire e fare quello che nessuno avrebbe osato fare. E quando questo qualcuno è arrivato, il vaso di Pandora si è aperto spargendo veleni per tutti il mondo. E siamo solo agli inizi…Ma Springsteen aveva (pre)visto tutto già da ragazzo, confrontandosi con le notti angosciate del padre e la forza d’animo della madre. In mezzo al conflitto c’erano i sogni di un ragazzo di talento, che aveva capito di avere il carisma necessario a diventare il leader di una band. Una come tante, lì, nel dimenticato New Jersey, specchio povero di New York. 

Pensieri, ragionamenti, visioni, digressioni, futilità… ma poi, quando arriva sul palco e osserva il pubblico davanti a sé, come Mosè ordina alle acque delle paure, delle delusioni, delle lacrime, di aprirsi senza, alcun timore di fallire, grazie alla sua parola magica sperimentata in tutti i palchi del mondo: «one, two, three, four», e il bastone miracoloso di Mosè si trasforma in una Fender Esquire «manipolata», la band diventa la sua famiglia, il suo popolo è immerso in una folla plaudente che non ha dubbi sulle parole del suo condottiero. Il mare è alle spalle, l’esodo è iniziato e ora comincia il cammino nella terra promessa. Il colpo d’occhio dello stadio, dal palco, dev’essere certamente emozionante e lo stadio di San Siro, dedicato al grande Giuseppe Meazza, sa abbracciare i suoi miti come pochi altri sanno fare. Springsteen lo conosce bene questo stadio, da quarant’anni, dal quel 21 giugno del 1985 che lo portò, finalmente, nel paese della famiglia materna. Lui ha sempre ricordato quel concerto come un grande, affettuoso abbraccio da parte del pubblico. Bruce, Bruce, Bruce gridava un tempo il pubblico, come un mantra magico. Ora un po’ meno: il pubblico è cresciuto e la voce va conservata per cantare.

Poi, leggermente in anticipo sull’orario di inizio del concerto, arriva la band che sfila sul palco. C’è anche lui, il mitico Steve Van Zandt, operato di appendicite in Spagna e pronto per affrontare caldo e fatica. Quando è il turno di Springsteen, il boato del pubblico è come un gesto d’amore per l’amico, il fratello atteso da tempo. Un sorriso, un saluto e poi la parola magica… Le mani nodose di Roy Bittan disegnano note di pianoforte che introducono My Love Will Not Let You Down, per raccontare che «la notte cammino per le strade in cerca di romanticismo, ma finisco sempre per inciampare intontito. Cerco il contatto in qualche nuovo sguardo ma è difficile proteggerli dai tanti sogni passati». Una potenza sonora micidiale, con le tre chitarre in linea a fiammeggiare suoni e la batteria di Max Weinberg che tritura tutto con un assolo al fulmicotone mentre il pubblico già inizia a saltare, ballare, cantare e le parole della canzone diffondono nello stadio una promessa: «Stai ferma ora piccola, ferma per l’amor di Dio, perché ho una promessa che non ho paura di fare, il mio amore non ti deluderà».

Inatteso, arriva un altro brano che invita a muoversi, cantare, saltare. Appare da un tempo lontano, Prove It All Night: uno dei brani «da stadio» che non possono lasciare indifferenti gli spettatori. «Tutti hanno un desiderio, a cui non possono resistere. Ci sono tante cose che vorresti. Tu meriti molto di più di questo ma se i sogni diventassero realtà non sarebbe bello? Ma non è un sogno questo che stiamo vivendo stanotte…». È l’amore che cerca conferme, è l’amore che vuole essere il senso della vita. La chitarra di Springsteen «canta le note» e lancia Steve affinché lo sostenga nel canto mentre il pianoforte e la batteria sono la base del brano. L’amore dei protagonisti si confronta con la vita, perché «Ascolti le voci che ti dicono di non andare via. Hanno fatto le loro scelte e loro non sapranno mai cosa significhi rubare, imbrogliare, mentire, vivere e morire».

Senza tirare il fiato, ecco una bella, oscura e profonda versione di Darkness On The Edge On Town. Un brano che riporta alla memoria il ritorno alle registrazioni dopo le vicende legali occorse con il manager responsabile del contratto discografico con la Columbia, Mike Appel. È anche il titolo dell’album del ritorno sul mercato discografico e della consacrazione live. La chitarra di Springsteen costruisce la trama sonora di un brano che lascia sempre indifesi rispetto alla sua potenza evocativa. «Tutti hanno un segreto, Sonny, qualcosa che non possono guardare in faccia. Alcuni passano tutta la loro vita tentando di mantenerlo, lo portano con loro in ogni passo che fanno, fino a che un giorno se ne liberano…». Ascoltare queste parole, osservare la grinta di Springsteen, vedere la concentrazione della band, dice del grande pathos che percorre il palco. Le pene del protagonista non sono terminate perché, dice, «Stanotte sarò su quella collina perché non posso fermarmi. Sarò su quella collina con tutto quello che mi è rimasto. Vite sul confine dove i sogni vengono trovati e si perdono. Sarò sempre là in tempo e pagherò il prezzo per volere le cose che si possono trovare soltanto nell’oscurità ai margini della città».

L’entusiasmo è già alto, così come la temperatura all’interno dello stadio. Springsteen tira il fiato sottolineando che «siamo in tempi pericolosi e l’America è nelle mani di un’amministrazione corrotta. Lasciate che la libertà risuoni». Così dice prima di tuffarsi in una Land Of Hope And Dreams dall’intro marziale, con l’incedere dei fiati e la musica che si fa pensiero e azione. Con reminiscenze di This Train — un gospel della tradizione ripreso da Woody Guthrie e Big Bill Broonzy — il brano racconta la speranza e il desiderio di libertà («tieni pronto il biglietto e prendi la valigia, il tuono arriva rombando sui binari. Non sai che non tornerai indietro»). È uno sguardo sul dolore e sulla speranza («dimentica i dispiaceri, lascia che questo giorno sia l’ultimo. Domani il sole splenderà e questa oscurità non ci sarà più»). Il suono del violino di Soozie Tyrell e il sax potente e melodico di Jake Clemons si uniscono alle armonie create dalla sezione fiati. È una versione in stile soul allo stato puro («enormi ruote rotolano attraverso i campi inondati dalla luce del sole. Saremo insieme in una terra di speranza e di sogni»). Come un predicatore degli stati del sud: arrivano le parole del celebrante che ricorda come fede e speranza non debbano mai deflettere nella vita di ciascuno, perché «questo treno trasporta santi e peccatori, sconfitti e vincitori, puttane e giocatori d’azzardo, anime smarrite…i sogni non saranno repressi, la fede verrà ricompensata…».

La voce di Springsteen irrompe sulla scena mentre la sezione fiati si esprime in tutta la sua potenza, costruendo per Death To My Hometown quell’atmosfera marziale che la contraddistingue. Il suono Irish non ammorbidisce il senso di battaglia contro le ingiustizie insito nelle parole del brano: «Hanno distrutto le fabbriche delle nostre famiglie e si sono presi le nostre case. Hanno lasciato i nostri corpi sulle pianure e gli avvoltoi si sono presi le nostre ossa». La descrizione della distruzione di una comunità è evidente, così come la paura per un futuro oscuro e pericoloso. Ma il brano vuole essere un’esortazione a non arrendersi, a prendere atto di come funziona il mondo e ribellarsi alle ingiustizie. Così, «Ora preparati una canzone da cantare e cantala forte fino a che tutto non sarà finito. Cantala chiara e forte, e manda i capitalisti senza scrupoli dritti all’inferno». Parole chiare, parole nette, parole dirette senza possibilità di equivoci. Per chi vuole capire…

E poi arriva Rainmaker, con la menzione di un non ben identificato «caro leader Presidente», che non è Kim Jong Un bensì il bullo del Queens diventato nuovamente Presidente degli Stati Uniti d’America. «Il sole della pioggia dice che il bianco è nero e che il nero è bianco. Dice che la notte è giorno e che il giorno è notte. Dice: chiudi gli occhi e vai a dormire che io sto in un campo riarso a sparare pallettoni alle nuvole basse». Qui l’approccio al canto appare come quello di un predicatore degli stati rurali del sud, della sun belt o della rust belt. Brano del 2012, ma potentemente preveggente e capace di manifestare, con poche parole, il dramma in cui sono caduti gli USA che, per tanti nel mondo, ha rappresentato, pur con mille contraddizioni, un faro di libertà e diritti. L’assolo della chitarra è acido e potente e la sua Fender scintilla note ricordando, a chi non lo avesse mai saputo o capito, il talento strumentale di Springsteen, apprezzato già agli albori della carriera per la capacità espressiva delle note generate dalla sei corde. La chiusura, con la potenza sonora della sezione fiati, rende le parole ancora più taglienti: «A volte si ha un tremendo bisogno di credere in qualcosa e allora si noleggia un mago della pioggia». Pensiamo con preoccupazione a queste ultime parole mentre Weinberg picchia su tamburi e piatti come fosse il Dio Thor…

The Promised Land arriva sul palco con la prima nota dell’armonica accolta da un boato. Non c’è solo Springsteen sul palco a cantarla: se si osservasse bene, si potrebbero scorgere le ombre di Woody e di Pete Seeger. Si potrebbe vedere l’anima di quell’America che ha attraversato i nostri sogni, nel bene e nel male. Un’America che ci ha dato parole d’ordine importanti, prima e dopo la Seconda Guerra Mondiale, attraverso messaggi culturali potenti e preziosi. Ma qui la storia è personale perché «lavorare tutto il giorno nell’officina di mio padre, guidare tutta la notte in cerca di qualche miraggio. Presto, piccola, cambierò vita», ed è necessario affermare la propria personalità, costruendo un futuro non segnato da schemi precostituiti. «Io non sono un ragazzo, io sono un uomo» è una presa di posizione che non ammette repliche quando il protagonista afferma, «ho fatto le mie valigie e cammino a testa alta nella tempesta. Vorrei essere un ciclone per abbattere tutto quello che non ha la fede, di stare aggrappato alla sua terra, soffiar via i sogni che ti devastano, che ti spezzano il cuore». È l’America del popolo quella che canta, non vista, accanto a Springsteen, mentre il pianoforte «ammalia» con le sue armonie, il sax si accende imperioso, l’armonica è come un treno in corsa che irradia note e speranze intorno a sé. L’immagine di Jake Clemons che sorride felice alla performance del «capobanda» è eloquente circa l’ammirazione per quest’uomo di quasi 76 anni da parte di un componente della E Street Band chiamato a un compito che avrebbe fatto tremare di paura chiunque…

Hungry Heart è uno dei classici a cui il pubblico non può esimersi di partecipare, creando un coro di sessantamila persone. «Tutti abbiamo bisogno di un cuore affamato, tutti abbiamo bisogno di un posto in cui riposare. Tutti quanti vogliamo avere una casa. Non fa differenza ciò che gli altri dicono e non c’è nessuno che ami stare solo». La canzone, che piaceva a John Lennon (purtroppo non poté ascoltarla a lungo), è uno dei brani sempre gettonati nei concerti di Springsteen. Allegra, potente, cantabile, capace di creare empatia con il pubblico. Una carta che Springsteen gioca sempre con grande maestria per coinvolgere gli spettatori. Le braccia si alzano e ruotano ritmicamente a mostrare la grande partecipazione a uno dei brani più conosciuti della discografia dell’artista del New Jersey.

My Hometown è sempre attesa per la malinconica efficacia con cui ritorna ai giorni della giovinezza di Springsteen, quando la sua città venne colpita da una rivolta razziale che ne cambiò per decenni la fisionomia e i rapporti tra le principali comunità residenti. È un brano del riscatto e Springsteen lo canta con grande traporto, anche accompagnato dal pubblico nel ritornello. «Avevo otto anni e stavo correndo con una monetina in mano verso la fermata dell’autobus per prendere il giornale a mio padre. Mi sedevo sulle sue ginocchia in quella grossa Buick e guidavo mentre attraversavamo la città. Lui mi scompigliava i capelli e mi diceva… dai una bella occhiata in giro. Questa è la tua città». La musica è una sorta di ninna nanna la cui dolcezza nasconde, però, la paura che il tempo dell’innocenza sia finito, perché ora «sulla strada principale ci sono solo vetrine imbiancate e negozi vuoti. Sembra che nessuno voglia più venire quaggiù. Stanno chiudendo lo stabilimento tessile dall’altra parte della ferrovia. Il caporeparto dice che questi posti se ne stanno andando e non torneranno mai più». Le parole sono eloquenti; la disillusione del sogno americano, anche.

Quando Little Steven si affianca, con a tracolla una splendida chitarra acustica, il pubblico ha già capito tutto. È arrivato il momento di The River, canzone iconica nel canzoniere di Springsteen. Quando partono le prime note dell’armonica, tutti vengono prelevati come in un sogno, e portati lì, in riva al fiume dove si può percepire il dolore della consapevolezza dei destini segnati («Ti fanno crescere per farti fare il lavoro che faceva tuo padre»), che poi si traduce in passaggi altrettanto impietosi («e per il mio diciannovesimo compleanno, ricevetti un libretto di lavoro e un abito da matrimonio. Andammo fino al Municipio e il giudice mise tutto in regola. Nessun sorriso il giorno delle nozze, nessun corteo nuziale»). È dolore metaforico (una nazione, un periodo storico, più generazioni…) ma anche disperazione vera, che si somma alla speranza incompiuta di restituire la doverosa e legittima dignità a chi sta sempre «sotto», condannato a non salire mai. «Ora tutte quelle cose che sembravano importanti sono svanite nell’aria. Ora io mi comporto come se non lo ricordassi. Mary, come se non gliene importasse… ora questi ricordi ritornano e mi tormentano come una maledizione». Le parole e la musica costruiscono mondi, immagini, sogni, paure, rabbia. La vita e la morte sono sedute insieme sulla riva di quel fiume. A volte in piena, a volte asciutto. A volte con intorno della vegetazione altre volte completamente arido. È lo scorrere del tempo e della vita che è nascosto nelle parole di un brano di straordinaria bellezza. E mentre il pubblico, dolcemente, si affianca con un soffuso coro ad accompagnare il brano verso la conclusione, il fiume verso il mare è palese nello sguardo di Springsteen, forse per la prima volta nella sua storia di esibizioni, un moto di emozione…

Youngstown è la città in cui vennero girate molte sequenze del film Il Cacciatore (ricordate la chiesa del matrimonio?). È la città che ha costruito l’America con l’acciaio. Acciaio con il quale sono stati elevati grattacieli, sono stati costruiti i cannoni e i carri armati con cui gli americani hanno combattuto nella Seconda Guerra Mondiale, in Corea, Vietnam. Poi, l’economia e la finanza hanno deciso che quell’acciaio lo si poteva produrre altrove, a costi inferiori. E la città è morta, la cultura operaia disintegrata, la comunità disintegrata, il futuro diventato una meteora. «Mio padre lavorava in fonderia, la manteneva più calda dell’inferno. Sono tornato dal Vietnam e venni promosso rastrematore, un mestiere adatto anche al diavolo. Taconite, carbone e calcare hanno cresciuto i miei figli e fatto la mia paga. Quelle ciminiere si alzavano come le braccia di Dio in un bellissimo cielo di fuliggine e argilla». Non c’è più futuro e Springsteen conosce bene, dalle vicende di suo padre, cosa significhi perderlo. E «dalla valle di Monongahela alle montagne ferrose del Mesabi alle miniere di carbone degli Appalachi, la storia è sempre la stessa: settecento tonnellate di metallo al giorno. Adesso, caro signore, lei dice che il mondo è cambiato: adesso ce l’ha fatta a diventare tanto ricco da scordarsi il mio nome». Il mondo è cambiato, il sacrificio di generazioni disperso, il futuro distrutto. È l’epitaffio dell’America blue-collar, dell’America dei sindacati operai, dell’America che costruiva, con fatica, il futuro. Mai accordi lancinanti, come quelli scaturiti dalla chitarra di Nils Lofgren, potevano essere migliori messaggeri per descrivere il dolore e la disperazione di una dignità perduta. Le note viaggiano vorticose nell’etere, con il calore e la luce di una invisibile colata di acciaio.

Rocciosa e potente come un tuono, arriva Murder Incorporated, con la E Street Band maestra di cerimonie che procede come un bulldozer fiero e potente a raccontare una storia inquietante, dove il protagonista è un componente dell’Anonima Omicidi della New York degli anni ’50. La sezione ritmica e la sezione fiati stillano note feroci mentre le liriche accendono un faro sul protagonista. «Ora controlli alle tue spalle ovunque tu vada, camminando per la strada ci sono occhi in ogni ombra. Faresti meglio a guardarti intorno». Già, perché «la polizia ti ha denunciato per un altro omicidio. Ma capisco che eri solo frustrato dal vivere nella anonima omicidi». Il finale, completo di fiati in delirio, raccoglie l’immagine di Springsteen e Little Steven (con una luccicante Fender dai motivi floreali) suonare affiancati, felici e contenti.

Long Walk Home richiama l’attuale situazione degli Stati Uniti e il bisogno di rimettere le cose al loro posto. «Sarà un lungo cammino verso casa cara mia bella, non aspettarmi alzata»: si prospetta una battaglia perché le forze antagoniste venderanno cara la pelle, ma è necessario essere preparati, mettersi in cammino, operare per il meglio e generare futuro. «Qui tutti hanno un vicino tutti hanno un amico, tutti hanno una ragione per ricominciare». Quasi fossero parole per dire che è possibile ritornare a vivere come un tempo, queste si uniscono al rombo delle chitarre, al sax melodioso, alla batteria che non fa prigionieri. «Mio padre disse, figlio siamo fortunati in questa città, è un posto meraviglioso per nascerci. Ti abbraccia e nessuno ti infastidisce e nessuno rimane solo. Vedi quella bandiera, oltre il Tribunale: significa che certe cose sono scolpite nella pietra. Dice chi siamo, cosa faremo e cosa non faremo». Questi sono punti fermi per la vita, a oggi, degli Stati Uniti d’America che il dittatore vuole scardinare. Ma Springsteen lo ha detto e ridetto: il bullo del Queens non prevarrà.

«Il clown criminale ha rubato il trono, ruba ciò che non potrà mai possedere. Possa la verità risuonare da ogni bar di una piccola città. Illumineremo la casa delle mille chitarre»: paiono liriche di preveggenza quelle scritte per House Of A Thousand Guitars, ma quando venne pubblicato l’album che la conteneva (Letter To You), Donald Trump era alla fine del mandato e aveva fatto capire chi fosse e quali danni potesse arrecare agli Stati Uniti, alla sua democrazia, alla coesione del Paese. Sembrano parole scritte per descrivere chi vuole essere Re e Papa nello stesso momento ma, soprattutto, ladro di diritti. Cantato con delicatezza — chitarra e armonica — il brano è un messaggio importante, a testimonianza di come l’impegno sociopolitico di Springsteen sia serio, sentito, sincero. Il messaggio è chiaro e riguarda tutti: «Quindi svegliati e scrollati di dosso i tuoi guai, amico mio. Andremo dove la musica non finisce mai. Dagli stadi ai bar della piccola città. Illumineremo la casa delle mille chitarre». Crediamoci e proviamoci…

Il pianoforte di “Professor” Roy Bittan introduce le parole di Springsteen, che si propone come una sorta di Ambasciatore di una parte dell’America, quella senza la K. Racconta del sogno americano e dei suoi fallimenti, denuncia l’autoritarismo di Trump e i pericoli per la democrazia. Sottolinea le persecuzioni nei confronti dei migranti, le fatiche dei lavoratori, gli arresti illegali, la volontà di attaccare la libertà e il pensiero delle università. È un discorso serio e potente quello che Springsteen annuncia al pubblico. Un discorso che ha proposto in tutti i suoi precedenti concerti. Insieme, però, perché la fiducia nel bene è imprescindibile (alla fine dell’articolo trovate il testo completo). Con gli applausi a seguire, si accende la musica di My City Of Ruins, dove il ritmo della sezione fiati, il feeling e la potenza vocale di Springsteen sottolineano che «i dolci veli della misericordia si muovono lentamente tra gli alberi della sera, giovani uomini all’angolo come foglie sparse le finestre sono sbarrate… ora con queste mani prego il Signore, con queste mani dammi la forza Signore, con queste mai dammi la fede Signore… Forza, risolleviamoci…». Cantata dal vivo la prima volta per ricordare le vittime dell’11 settembre (in origine dedicata a Freehold, la sua città) è un canto di rivolta contro lo status quo, un grido per rialzarsi, combattere, vincere, vivere. Potente e sentita, sincera e gagliarda. La sezione fiati esibisce uno per uno i suoi strumenti: trombone, tromba, cornetta, sax baritono a dettare i tempi per imbastire una sorta di sermone soul da chiesa battista, alla maniera dei Blues Brothers. E l’inciso Come on, rise up è cantato a pieni polmoni da tutti i presenti allo stadio… casomai a qualcuno non fosse chiara e netta l’intenzione e l’indirizzo di questo brano.

Because The Night può essere tante cose, ma quando la propone una voce potente al servizio di una band possente, quello che si manifesta è l’espressione di uno dei brani più amati sia dai fan di Springsteen sia di Patti Smith. Quando la E Street Band la suonò il 21 giugno del 1985, vi fu un boato spaventoso che scosse lo stadio. «Non possono farti male ora. Perché la notte appartiene agli innamorati, perché la notte appartiene a noi. Quello che ho, l’ho guadagnato. Quello che non sono, tesoro, l’ho imparato… perché la notte appartiene agli innamorati». Questa non è solamente una canzone, ma una vertigine che rende possibile una sorta di elevazione mistica all’amore quasi fosse una sorta di Cantico Dei Cantici in versione moderna. Weinberg è possente (e posseduto dagli dèi del ritmo), il sax di Clemons è un urlo di gioia, le dita di Bittan volano sui tasti, Lofgren lancia le mani in mille direzioni e sfodera note torrenziali (senza sbagliarne una nonostante continui a girare su se stesso), l’organo di Charlie Giordano distilla emozioni e il basso di Gary Tallent è un inesauribile stantuffo, mentre la voce di Springsteen diffonde passione e amore.

Wrecking Ball arriva a sfidare la resistenza del pubblico con un altro ritmo indiavolato con violino, chitarre fiati e quant’altro a generare un sabba di note e parole. «Sono sorto dall’acciaio, qui nelle paludi del Jersey, alcuni nebbiosi anni fa attraverso il sangue e gli applausi». Anche in questo brano ci si avvicina a uno Springsteen predicatore del meglio e del bene, colui che guarda alla storia e alla sua comunità.«Sì, ora sappiamo che il domani verrà, niente di tutto questo ci sarà, allora tieniti stretta la tua rabbia… e non cadere nelle tue paure». Una canzone di forza, di resistenza, di calore, di determinazione. Anche di paura per il domani, ma soprattutto di resistenza, perché «quando tutto questo acciaio e queste storie verranno trascinati via nella ruggine e tutta la tua giovinezza e bellezza saranno ridotte in polvere, il tuo gioco sarà deciso». E prima che questo accada è necessario prepararsi a combattere contro la palla demolitrice.

Nella lista delle canzoni di un concerto altamente adrenalinico, ma anche politico nel senso più alto dell’accezione,The Rising non poteva certamente mancare e Springsteen, anche grazie ad un particolare taglio di luce, appare come una sorta di cavaliere che dovrà condurre il bene nella battaglia finale di Armageddon. Anche questo brano è figlio della risposta all’11 settembre 2001 e incluso nell’album avente lo stesso titolo, scritto e suonato per ricordare quell’evento, ma anche per leggere la Storia non con un taglio (ri)vendicativo bensì con il desiderio di capire, di pacificare, di rimettere al posto giusto i pezzi del puzzle che la compongono. Parlano i Vigili del Fuoco: «Sulla mia schiena una pietra da sessanta libbre, sulla mia spalla una corda di mezzo miglio». Parlano i soccorritori: «Sono uscito di casa stamattina e il suono degli allarmi riempiva l’aria. Portavo la croce della mia chiamata su scale di fuoco sono arrivato quaggiù barcollando». Parlano coloro che stanno per morire: «Ci sono spiriti sopra e dietro di me, facce annerite, occhi che brillano di fuoco. Che il loro prezioso sangue possa avvolgermi. Dio, quando starò davanti alla tua luce fiammeggiante». Parlano i sopravvissuti: «Cielo di oscurità e di dolore, cielo d’amore, cielo di lacrime, cielo di gloria e di tristezza, cielo di pietà, cielo di paura, cielo di memoria e ombre». È un brano dal canto corale, pieno di dolore ma anche della voglia di riscatto etico, per evitare di essere presi nella morsa dell’odio e della vendetta. Risorgi, America!

E come risorgere se non iniziando ad attraversare le Badlands dove «il povero vuole essere ricco, il ricco vuole essere Re. E un re non è contento finché non comanda su tutto. Stasera voglio uscire, voglio scoprire cosa ho dentro. Credo nell’amore che mi hai dato, credo nella fede che potrebbe salvarmi, credo nella speranza e prego. Che un giorno possa elevarmi al di sopra di queste terre desolate». Il suono della batteria rutilante di Weinberg scatena il pubblico, che salta e canta felice. Suonata con entusiasmo e cantata come fosse la prima volta, Badlands centra sempre l’obbiettivo di raccontare la vita e i suoi dolori, le speranze, le attenzioni verso il futuro partendo da una realtà sconnessa. Springsteen fa gridare le corde della sua chitarra e tutto è un tripudio di felicità, con il pubblico che canta il ritornello: un momento della vita da cristallizzare in un presente infinito, fino a fissarlo nella pietra. «Non è un peccato essere felici di essere vivi», e per questa felicità è lecito e necessario combattere. Sempre.

Quando il suono di un’armonica morriconiana introduce queste parole, «La zanzariera sbatte, il vestito di Mary svolazza. Come una visione danza sulla veranda mentre la radio suona. Roy Orbison canta per i solitari. Sono io e voglio solo te», siamo proiettati in un’altra dimensione. Quella del sogno e dei desideri, quella degli anni ’50 e della ricerca di un futuro migliore ma non irregimentato. Thunder Road è la canzone perfetta, la canzone trasparente, la canzone del desiderio di libertà, la canzone delle tensioni e del rischio.«Io non sono un eroe, questo è chiaro», è un concetto che Springsteen volle definire subito, all’inizio della carriera, perché il suo essere persona normale, everyday man, gli dava la possibilità di esplorare il mondo reale e parlarne nelle sue canzoni. Thunder Road esprime le sfaccettature dell’amore, della sua bellezza, della ricerca dell’altra/o come elemento vitale per non perdersi in una società complicata. Definisce un percorso, perché «Questa strada a due corsie ci porterà ovunque. Abbiamo un’ultima possibilità per realizzare i nostri sogni, per cambiare le nostre ruote in ali. Salta su, il paradiso ci aspetta lungo la strada». La musica sul palco diffonde bellezza e tutti i musicisti sono partecipi di un racconto senza fine, perché è il racconto della vita, della consapevolezza di come quella che ospita i protagonisti della canzone sia «una città piena di perdenti, e me ne sto tirando fuori per vincere». E Springsteen, ovviamente, ha vinto.

«Nato in una città di individui morti»: così esordì la E Street Band nel concerto del 21 giugno del 1985, con una versione bollente di Born In The USA. Con un botto sonoro da far stramazzare lo stadio. Ma era necessario allertare l’attenzione di tutti i presenti perché la voce di Springsteen raccontava dell’America nascosta, dell’America fuori dalle luci della ribalta, dell’America dei perdenti. Parlava dei reduci del Vietnam, usati come soldati, dimenticati come cittadini. «Così mi misero un fucile tra le mani, mi inviarono in una terra straniera, per andare a uccidere l’uomo giallo». Fu un potente messaggio per risvegliare l’attenzione del governo verso uomini usati e gettati nella spazzatura della storia, ma il presidente Ronald Reagan — un gentiluomo rispetto a Trump — proprio non capì di cosa stesse parlando il brano, nato tra l’altro con le sonorità che avevano contraddistinto l’«oscuro» Nebraska. «Tornato a casa dalla raffineria, il responsabile delle assunzioni mi disse, “figliolo, se dipendesse da me”». Nessun lavoro, nessuna gratitudine, nessun futuro. Dopo aver combattuto una guerra sbagliata, non c’era posto per i reduci. «Giù nell’ombra del penitenziario, fuori vicino ai fuochi del gas della raffineria, sto bruciando da dieci anni sulla strada. Nessun posto dove correre, nessun posto dove andare». Il sogno americano è diventato un incubo e la rullata infinita di Weinberg appare come un epitaffio triste e desolato su un periodo di storia americana.

Il tempo passa (sono cinquant’anni) ma Born To Run rimane un fulgido invito a non fermarsi, a darsi da fare, a lottare per il proprio futuro. «Piccola, questa città ti strappa le ossa dalla schiena. È una trappola mortale, è un invito al suicidio. Dobbiamo andarcene finché siamo ancora giovani, perché i vagabondi come noi, tesoro, sono nati per correre». Il sax suona alla velocità della luce, la batteria sembra una mitragliatrice che non perde un colpo (nonostante la fatica fisica e il caldo asfissiante). Le luci dello stadio sono accese, quasi a significare che quella band e quel pubblico sono intrisi di luce e la devono portare nella società in cui vivono. Correre per una meta, correre per un ideale, correre per la vita. Milioni di vite e altrettanti sogni racchiusi in una canzone, nel suo testo pieno di speranzosa ribellione, nelle sue note ricche di pathos e felicità. È una festa, con il pubblico che balla, schiantato dalla fatica, inebriato dall’entusiasmo. Ma la corsa non è finita.

«Ci piaceva la stessa musica, ci piacevano le stesse band, ci piacevano gli stessi vestiti. Ci dicevamo a vicenda di essere i più selvaggi, la cosa più selvaggia che avessimo mai visto. Ora vorrei che me l’avessi raccontato»: questo il senso di Bobby Jean, una storia di amicizia, una storia ben descritta dalle sue liriche come un malinconico arrivederci. Le braccia dei presenti ruotano all’unisono per seguire la bellezza delle note e della storia. Di una canzone di felicità e malinconia, di rimpianti, di abbandoni, di sguardi verso il futuro. Le note della sezione fiati sono una sorta di saluto per la fratellanza interrotta (ma mai abbandonata). Il sax «lacrimoso» e melanconico irrompe sulla scena con note da commiato, mentre miglia di braccia ruotano nell’aria. «Ora andiamo in giro sotto la pioggia, parlando del dolore che ci provoca il mondo che nascondiamo. Ora non c’è nessuno, qui, e in nessun modo, che possa capirmi come lo facevi tu». Ciascuno è alla ricerca di Bobby Jean, nessuno vuole perdere Bobby Jean, reale, metaforico, ideale, fratello nell’anima… 

“Professor” Bittan è tranquillo come fosse dal barbiere mentre snocciola le note di Dancing In The Dark e assecondala sezione fiati che, forse, immagina di vedere danzare i presenti con la voglia di dimenticare i problemi della vita. Le immagini dei tempi passati arrivano al pubblico grazie al potere dell’immaginazione. «Te ne stai seduto a invecchiare, c’è un brutto scherzo da qualche parte che mi riguarda. Mi scuoterò via questo mondo dalle spalle». Ci sono cuori spezzati in quelle sale da ballo, ci sono speranze e delusioni, ma la musica è troppo importante per fermarsi a ciò che non va. Allora, che la musica faccia ballare, che la musica sia medicina, che la musica possa guarire, stanotte, ora, per sempre. «Non puoi accendere un fuoco passando il tempo a piangere sopra un cuore infranto». Sembra di vedere la persona che pronuncia queste parole, sembra di sentire le anime di coloro che hanno calpestato quelle pedane e ora danzano nell’oscurità.

«La notte è buia ma il marciapiede è illuminato ed evidenziato dalla luce della vita. Dalla finestra di un appartamento una radio gracchia. Voltato l’angolo le cose hanno una quiete reale e sono veloci»: Tenth Avenue Freeze-Out è l’atto finale del concerto. Atteso in particolare per la presentazione di tutti coloro che sono protagonisti sul palco. La sezione fiati, coriste e coristi, percussioni, la leggendaria E Street Band. Un brano — questo — che segna l’ingresso nella band dell’amico di una vita, Steve Van Zandt (come produttore/arrangiatore dei fiati) e tra l’altro racconta dell’incontro con Clarence Clemons, la spalla perfetta, insieme a Little Steven, di Springsteen. «Quando le cose cambiarono, in periferia, e Big Man si unì alla band dalla costa fino al centro, tutte le giovani bellezze alzarono le loro mani. Io mi metterò comodamente a sedere e riderò quando Scooter e Big Man spezzeranno questa città in due…».È la canzone della memoria e del rimpianto che si dipana sul palco, mentre sui grandi schermi appaiono le immagini del funambolico sassofonista e di Danny “Phantom Dan” Federici, l’organista/fisarmonicista (e tanto altro ancora) presente nella band dai suoi albori. La memoria corre veloce alla metà degli anni ’70 e a tutto ciò che quel timido ragazzo del New Jersey ha saputo costruire grazie al suo talento, alla sua caparbietà, al suo desiderio di diventare «qualcuno».

Twist & Shout, scritta da Phil Medley e Bert Russell degli Isley Brothers, uscì nel giugno del 1962 e venne incisa dai Beatles per il loro primo album (e per un 45 giri). Springsteen l’ha eseguita nei suoi finali per circa trecento volte: energica, adrenalinica, infuocata ha la missione di «stroncare» gli spettatori grazie al suo ritmo mozzafiato. Potente, sudata, esaltante è una delle immagini che rimanda allo Springsteen prima maniera quando costruiva il mito attraverso cover dei grandi brani del rock e del pop. L’atto finale è stato declamato, il concerto è finito. Litri di sudore lasciati sul palco, tanta gioia diffusa tra il prato e gli spalti. La band e Springsteen salutano, però non lasciano.

Con la camicia fradicia, incollata al corpo, Springsteen imbraccia la sua mitica Fender Esquire e inizia a cantare con tutta la band a supporto. Sono le parole di Bob Dylan, il padre putativo di tutti coloro che hanno avuto qualcosa da dire a cavallo degli anni ‘60 e ’70 (e poi oltre), a irrompere nello stadio. Il viso di Springsteen è serio, pare stia guardando oltre l’orizzonte, oltre la vita. «Lampeggiavano luci per i guerrieri la cui forza è non combattere. Lampeggiavano per i rifugiati sulla loro inerme via di fuga. E per ognuno e tutti i soldati della notte noi vedemmo in alto le lampeggianti campane della libertà». La campana ha bisogno di qualcuno per suonare, di qualcuno che sappia a chi indirizzare quel suono, qualcuno in grado di spiegare il senso di quel suono. «Suona per i malati le cui ferite non possono essere curate, per le schiere degli innumerevoli confusi, accusati, maltrattati o peggio. E per ogni uomo imprigionato, nell’intero universo noi vedemmo in alto le lampeggianti campane della libertà». Chimes Of Freedom, già incisa dal vivo nel 1988 e suonata in concerto nel corso di vari tour, è una pietra miliare della poetica dylaniana e della capacità di parlare in maniera descrittiva e immaginifica. Springsteen la fa sua e il pubblico anche.

Ora tutto è davvero terminato. Springsteen e la band salutano e lasciano il palco. Il pubblico continua ad acclamare lui e gli altri, e così l’artista si trova «costretto» a riprendere la chitarra e imbastire, tutti assieme, una splendida, travolgente versione della Rockin’ All Over The World di John Fogerty che chiuse il concerto dell’85. Il pubblico accompagna in maniera straordinaria il canto del diavolo del Jersey che, alla fine, lancia baci verso il suo pubblico, innamorato, gentile, appassionato, affezionato. Un pubblico — le telecamere individuano più generazioni — che non teme la fatica, accetta la stanchezza consapevole di poter ricevere l’agognata ricompensa. Un pubblico che accompagna l’uscita di Springsteen dal palco cantando il ritornello della canzone conclusiva. La domanda che immediatamente rimbalza tra gli spettatori è la solita: «Chissà se tornerà, adesso ha una bella età…». Si, è vero, ma fino a quando non se ne accorgerà, non temiamo defezioni. D’altra parte, è bene ricordare che siamo come «fratelli di sangue nella notte tempestosa, con una promessa da difendere. Nessun ritiro baby, nessuna resa». Mentre il pubblico lascia lo stadio, dall’impianto audio la voce di Woody Guthrie recita This Land Is Your Land. Abbiamo capito: la battaglia dell’Armageddon è appena cominciata…

Introduzione a My City Of Ruins

«Ho sempre cercato di essere un buon ambasciatore americano. Ho passato la mia vita a cantare i nostri successi, ma anche i fallimenti nel vivere il nostro ideale civile e i nostri sogni. Ma adesso stanno accadendo delle cose che alterano la vera natura della democrazia dei nostri Paesi e sono troppo importanti per essere ignorate. In ogni casa ci sono dei problemi quindi, prima di tutto, lasciatevi dire grazie per il fatto di ascoltare i miei. In America, casa mia, stanno perseguitando le persone che utilizzano la loro libertà di parola e danno voce al loro dissenso. Questo sta succedendo adesso in America: gli uomini più ricchi trovano soddisfazione nell’abbandonare i bambini più poveri al mondo alle malattie e alla morte. Questo sta succedendo adesso. Nel mio Paese stanno godendo in modo sadico del dolore inflitto a onesti lavoratori americani. Stanno tornando indietro nella storia del diritto civile per il quale nel passato abbiamo combattuto molto e ci ha portato a una società più giusta. Stanno abbandonando i più fedeli alleati e si stanno allenando con dittatori contro quelli che lottano per la loro libertà. L’America di cui ho cantato per voi per circa 50 anni è reale, indipendentemente da tutti i suoi difetti. È un paese incredibile con persone incredibili. Sopravviveremo a questo momento. Ho speranza perché credo nella verità enunciata dal grande scrittore americano James Baldwin: In questo mondo non c’è tutto il senso di umanità che si vorrebbe esistesse, ma ce n’è abbastanza. Preghiamo…»

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