
Il più grande spettacolo del mondo, l’equivalente di un misto tra una manifestazione di giubilo di un popolo che ha riconquistato la democrazia e una messa gospel la domenica mattina ad Harlem. Certo, c’è anche lo spettacolo nazional popolare di Bruce che scende dal palco e cammina come un Papa lungo la transenna del pit, mettendosi a disposizione fisica di quanti hanno sudato e lottato per quel posto, toccando la testa e le mani di ragazze (tantissime), ragazzi e bambini e facendosi abbracciare (succede in Hungry Heart e in Thunder Road, quest’ultima ormai priva del suo originale significato stradaiolo), ma ho sentito più parole nette contro Trump e l’autoritarismo dell’attuale governo americano dal Boss, che da tutti i politici mondiali messi assieme.
Sarà che San Siro è San Siro, ma Springsteen coadiuvato da una oliatissima E-Street Band, ha riversato in gilè, camicia bianca, cravatta e jeans un’intensità quasi inaspettata, un’intensità che grondava rabbia, gioia, resistenza, fede e speranza. Tutto ciò all’insegna di un rock n’roll che per come è messa in campo oggi la band, oltre alle doppie tastiere di Bittan e Charlie Giordano, al drumming tuonante di Max Weinberg, al preciso stantuffo del basso di Garry Tallent e alle complementari chitarre di Nils Lofgren e Little Steven, per via della copiosa sezione fiati e della nutrita compagine delle coriste (compresa la violinista Soozie Tyrell), si è trasformato nella pienezza di una big band che, mentre l’enfasi sale, suona un gospel a cui tutti si vorrebbero abbeverare, per bearsi di un universale inno alla gioia.
Gli highlights dello show milanese, a mio parere, sono stati Long Walk Home e My City of Ruins soprattutto, ma anche The Rising e Wrecking Ball, quest’ultima un vero pugno allo stomaco contro le ingiustizie del mondo, la stessa Land of Hope and Dreams, con cui Bruce ha dato il via al suo comizio e il cui testo in italiano scorreva sulle immagini dei tre imponenti schermi attorno al palco.
Bruce rimane di una generosità fuori del normale, tre ore di concerto, la voce che qualche volta stenta, ma con quel caldo umido e soffocante, un altro della sua età sarebbe stramazzato al suolo (succede all’inizio di Atlantic City e Born To Run). Ma porca miseria, non potrebbe lasciare spazio tra una potentissima e violenta Born In The Usa urlata a squarciagola e il nato per correre, messo a mo’ di medley, per tirare un po’ il fiato? No, niente affatto, il suo antico retaggio di lavoratore dello spettacolo che dà tutto al suo pubblico non lo permette. E allora l’encore, in realtà altri 50 minuti di concerto, vedono arrivare una dietro l’altra Bobby Jean (in quei quattro minuti mi è passata davanti tutta la mia vita), la sbarazzina Dancing in The Dark, il soul-blues virato doo-wop di Tenth Avenue Freeze Out, la festa totale in una San Siro impazzita di Twist and Shout e la conclusiva Chimes of Freedom di Dylan, che magari le ultime generazioni del suo pubblico (ormai maggioritarie) non conoscono, ma che la E Street Band trasforma in un altro di quegli inni gospel che sono oggi il cuore della loro musica, chiusa dall’inchino di tutti i musicisti e dalle note di This Land Is Your Land, con la quale gli altoparlanti annunciavano che il più grande spettacolo del mondo era terminato.
Per i veterani come me mancano nella scaletta i titoli di coloro che fuggivano nelle strade secondarie in cerca di una vita o di un amore diverso, ma il Bruce di oggi si è spostato al centro senza perdere il contatto con la realtà, e se iniziare con No Surrender e My Love Will Not Let You Down significa ricordare da dove si proviene e quale storia c’è alle spalle, Rainmaker, anche questa accompagnata dal testo tradotto, è di una durezza contro il potere da far accapponare la pelle, pur con la metafora delle illusioni del fabbricatore di pioggia, e Youngstown, con il magistrale assolo di chitarra di Lofgren, è quello che Landini dovrebbe dire ai governanti sulle bugie del piano industriale.
Sono tra i momenti più rock della serata, prima di una Murder Incorporated che non è mai stata una meraviglia di canzone, ma è qui apposta a ricordare che il rock’n’roll è soprattutto una faccenda di chitarre elettriche e Little Steven, pur convalescente, ci ha messo del suo. Prima di queste, Death of My Hometown ricordava che questa musica è anche frutto di immigrati, di radici celtiche, di violini e fisarmoniche, di folk inurbato in speranze e precarietà metropolitane.
Immaginatevi poi in uno stadio strapieno, sudato, entusiasta e gioioso, cosa può succedere quando viene intonata I’m On Fire e si fa largo l’elettricità urgente di Because The Night. Per chi scrive, The River è un’altra cosa rispetto alle tante sentite nel passato, ma l’abbraccio del pubblico, uno spettacolo nello spettacolo, è tale che la canti ugualmente come fosse la prima volta. House of Thousand Guitars è l’unico episodio veramente acustico di tutto il set, il respiro solitario di un autore che rimane nel mondo dello spettacolo una voce credibile, autorevole e coraggiosa. E ti fa divertire come pochi al mondo.
P.S. Grande efficienza nell’organizzare un concerto che ha portato allo stadio 60 mila persone. Non si capisce, però, perché il Comune di Milano, nei mesi in cui questi eventi si succedono, chiuda per lavori la principale via di accesso al mega parking di Lampugnano, convogliando tutto il traffico che viene da Nord e da Est, lasciando libera una sola entrata con un solo casello, causando così file interminabili.