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Butch Trucks: Leave My Blues at Home

In ricordo di Butch Trucks (1947-2017)


Possedeva, da musicista, il dono di una forza espressiva ruggente, violenta, insistita e mai dolciastra, nonché, da essere umano, i doni altrettanti importanti dell’(auto)ironia e dell’onestà, grazie ai quali, anche ricordando un evento — il Summer Jam Festival tenutosi nel luglio del 1973 presso l’autodromo di Watkins Glen, poco fuori New York, davanti a una folla record di 600.000 persone — tramandato come leggendario, riusciva, quando gli chiedevano della favoleggiata jam notturna tra i nomi più in vista del cartellone, a essere obiettivo e divertito: «Fu un disastro assoluto. Non avrebbe mai potuto funzionare. A causa delle droghe: quelli di The Band erano ubriachi come pigne, i Grateful Dead erano in coma e noi Allmans eravamo strafatti di coca».

Morto a 69 anni, dopo essersi sparato in bocca davanti alla moglie Melinda (alla quale è toccato contattare, malgrado lo stato di shock, il pronto intervento) nella loro casa di Palm Beach, in Florida, lo scorso 24 gennaio, Charlie Hudson Trucks, meglio noto come Butch Trucks, aveva iniziato a suonare la batteria ai tempi delle superiori, continuando poi a infilarsi in vari gruppi e gruppetti anche all’università (dove non prese mai la laurea proprio perché troppo occupato con la musica), con lo scopo di evitare il richiamo in Vietnam. Il salto verso il professionismo lo spiccò quando, ancora militante in quei The 31st Of February formati con alcuni compagni del liceo e talmente scoraggiato per gli scarsi riscontri da considerare l’ipotesi di tornarsene all’università per studiare matematica, venne contattato da un tizio incontrato pochi giorni prima in un club, tale Duane Allman, allora in possesso di un contratto discografico con la prestigiosa Atlantic Records.

La Allman Brothers Band — Duane e Gregg Allman, Dickey Betts e Berry Oakley — già disponeva di un percussionista, Jai Johanny Johanson, nativo di Ocean Springs, Mississippi, chiamato da tutti “Jaimoe” e in possesso di un piccolo benché significativo curriculum (aveva suonato con Otis Redding e Sam & Dave), ma Duane era convinto che se James Brown aveva due batteristi, di conseguenza dovevano averne due anche loro, quindi invitò Trucks a unirsi alla formazione. Tramite la fantasia ondeggiante di Jaimoe e la potenza spiritata di Trucks, gli ABB riuscirono a sviluppare quelle sonorità — un groviglio spontaneo di ritmi e chitarre sudiste distese sopra una base jazz — da mesi brulicanti nella testa di Duane, un patito degli Yardbirds che aveva deciso di abbandonarsi alla strada dell’improvvisazione dopo essersi imbattuto nei Cream di Eric Clapton, Ginger Baker e Jack Bruce. Pur riconoscendo il debito d’ispirazione nei confronti di certe band inglesi, Trucks, formatosi su batteristi jazz quali Elvin Jones e Joe Morello, non apprezzò mai troppo lo stile buffonesco e spregiudicato di Baker, o quello pirotecnico e tonante di John Bonham dei Led Zeppelin (musicisti cui veniva spesso accostato), altresì rimproverando a costoro un’attenzione eccessiva agli aspetti più superficiali delle rispettive presenze sceniche; nella direzione da lui intrapresa, al contrario, voleva fossero ben chiare le ore e ore di concentrazione spese tuffandosi senza paracadute nelle ragnatele ritmiche dei dischi di John Coltrane, Charlie Parker, Miles Davis o Herbie Hancock, ossia (insieme al vecchio country-blues di Robert Johnson, Blind Willie McTell, Son House e Blind Lemon Jefferson) gli ascolti prediletti della ABB.

Fece sua una dichiarazione dell’amico e collaboratore Duane Allman («La musica non è una competizione sportiva») e la portò alle estreme conseguenze di inventiva e disciplina, al punto da rammaricarsi, negli ultimi anni, delle stagioni — gli anni ’70 — in cui, inebriati dal grande successo di pubblico, gli stessi Allmans avevano finito per privilegiare, così disse, l’intrattenimento a scapito della musica. Forse troppo severo con se stesso, e con i colleghi, ma così rigoroso da sapersi spendere fino all’ultimo in ogni occasione (si narra di una Whipping Post, poi sintetizzata nei venti minuti apparsi sul capolavoro assoluto At Fillmore East [1971], durata ben quattro ore di melodrammatico crescendo blues, in un continuo sbranarsi di tempi dai 6 agli 11/4), con una forza e una rabbia — una rabbia primordiale dovuta a quando Duane, per incalzarlo in seguito alla prima audizione, gli aveva detto, «Be’, non sembri un fuoriclasse, ma almeno sai suonare» — capaci di farlo svettare sopra qualsiasi coetaneo del periodo, Trucks è stato uno dei pochi membri originali del gruppo a esibirsi ininterrottamente nelle sue fila, negli ultimi 15 anni accompagnato anche dalla fenomenale sei corde del nipote Derek, fino al 2014.

L’anno dopo, assieme all’amico Jaimoe, aveva formato i Les Brers (dall’omonima traccia strumentale composta da Dickey Betts per Eat A Peach [1972], Les Brers In A Minor), e in contemporanea aveva continuato a suonare nei Butch Trucks & The Freight Train Band, coi quali ha tenuto, il sei gennaio, a Rocky Mountain (Virginia), l’ultimo concerto della sua vita. In un post di commiato su Facebook, Warren Haynes, chitarrista e direttore d’orchestra della ABB dal 1989 a oggi (con una breve interruzione nella seconda metà dei ’90), ha ricordato Butch Trucks come «il Lou Gehrig dei batteristi rock», mettendo in relazione la dedizione alla causa del mancino degli Yankees (in grado di giocare 2.130 partite consecutive nonostante gli infortuni, le lombalgie, le fratture e l’insorgere della sclerosi laterale amiotrofica) e lo stile e l’energia mai invecchiati per davvero del compagno d’armi: «Ha sempre suonato con la massima intensità, fino al punto di stramazzare, senza alcun rimpianto».

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