
So che sto per utilizzare la più trita e banale delle espressioni, ma la notizia della morte di Brian Wilson mi è arrivata oggi, 11 giugno, come un vero e proprio fulmine a ciel sereno (il cielo oggi, sereno lo era davvero): nonostante fosse da anni malato e affetto da demenza senile, la scomparsa di un tale gigante della nostra musica (a pochi giorni dal suo ottantatreesimo compleanno) è qualcosa alla quale non si è mai preparati. Qualunque ricordo dedicato ad un personaggio di questa portata (incluso soprattutto questo che state leggendo) non può non risultare, di fronte alla sua grandezza, lacunoso e inadeguato; in quanto, lo rammento a quei due o tre che negli ultimi 60 anni avessero vissuto su un altro pianeta, stiamo parlando di una delle più grandi menti musicali del secolo scorso, per la quale il termine altrimenti iper-abusato di «genio» non è mai stato esagerato.
Leader fondatore dei Beach Boys insieme ai fratelli Carl e Dennis, al cugino Mike Love e all’amico Al Jardine, Brian e i suoi compagni riescono a fare breccia, fin dai primi 45 giri, nei cuori dei teenager americani, solleticando i loro sogni fatti di mare, surf, macchine e ragazze con canzoni che la critica inizialmente giudica banali ma già nascondono, in realtà, le profonde influenze musicali del nostro: Burt Bacharach e George Gershwin per quanto riguarda il songwriting, Chuck Berry e i gruppi doo-wop degli anni cinquanta per le musiche e l’idolo Phil Spector per le tecniche di produzione. Con l’aggiunta del vero marchio di fabbrica dei «ragazzi da spiaggia», ovvero le splendide armonie vocali che nei decenni saranno imitate da legioni di colleghi senza mai peraltro essere uguagliate.
Surfin’ USA, Surfin’ Safari, I Get Around, Don’t Worry Baby, Surfer Girl, In My Room, Little Deuce Coupe, California Girls, Fun Fun Fun, Help Me, Rhonda sono solo alcune delle canzoni più note scritte da Brian (alcune in coppia con Love) che fanno acquisire ai Beach Boys il soprannome di America’s band in contrapposizione alla British invasion guidata dai Beatles (di cui Brian è fervido ammiratore).
Il successo dei primi anni ‘60 causa però le prime crepe nella fragile psiche di Wilson, sotto forma di un esaurimento nervoso che lo colpisce nel 1964, facendogli decidere di smettere di esibirsi dal vivo con il resto della band dall’anno successivo; il suo ruolo on stage viene assunto da Bruce Johnston, che a poco a poco entrerà a far parte della line-up anche in studio. Ciò gli permette però di concentrarsi meglio sul lavoro di songwriter e produttore, un doppio ruolo che nel 1966 frutta al gruppo l’epocale singolo Good Vibrations, una vera sinfonia pop di poco più di tre minuti, e soprattutto l’album Pet Sounds, semplicemente uno degli LP più perfetti e influenti di ogni tempo, per il quale negli anni sono stati versati fiumi di inchiostro, un disco pieno di canzoni sensazionali (Wouldn’t It Be Nice, Sloop John B, Caroline, No, God Only Knows i titoli più noti) tanto da «costringere» un esterrefatto Paul McCartney a rispondere a tono.
Il risultato — Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band — manda nello sconforto Brian, il quale ha sempre sentito la rivalità a distanza con i Fab Four: Wilson comincia quindi a vacillare mentalmente in maniera più decisa, interrompendo le registrazioni di Smile (un progetto nelle intenzioni ancora più ambizioso di Pet Sounds), anche a causa di conflitti con il resto della band e questioni legali con la Capitol, casa discografica dei nostri. Smile non vedrà mai la luce (diversi brani usciranno spezzettati nel corso degli anni), causando il progressivo peggioramento delle condizioni psichiche di Brian e il suo graduale disimpegno nei confronti del gruppo, non prima di aver dato alle stampe altri album di buon valore e un quasi capolavoro nel malinconico Surf’s Up del 1971.
All’inizio dei Seventies, Wilson entra però in una spirale autodistruttiva che lo porta a non uscire di casa (anzi, dalla camera da letto) per circa tre anni, impiegati a imbottirsi di droghe, cibo e alcol, e portando i suoi contributi all’economia dei Beach Boys ai minimi storici. È qui che, per iniziativa della moglie Marilyn, entra in scena il dottor Eugene Landy, psichiatra noto nell’ambiente di Hollywood ma anche piuttosto controverso per i suoi metodi non proprio ortodossi. Landy avrà una grande influenza su Brian, riuscendo a riportarlo a fare musica e scrivere canzoni con continuità (dal 1977 dell’album The Beach Boys Love You), anche se, a causa del mutare delle mode musicali, il pubblico sembra essersi dimenticato della band californiana. Questo porta Wilson a ricadere nei vecchi vizi all’inizio del decennio successivo, anche in ragione della tragica e improvvisa morte del fratello Dennis e dei contrasti sempre più frequenti con Mike Love (uno che, usando un francesismo, si può definire uno stronzo attaccato soltanto ai soldi), il quale lo butta fuori dal gruppo senza troppi complimenti. Brian si rivolge di nuovo a Landy, il quale riesce ancora una volta a tirarlo fuori con cure ancora più discutibili ma, a quanto pare, efficaci, e si riunisce alla sua band per il mediocre The Beach Boys (1985), oltre a risalire clamorosamente sul palco con loro in occasione del Live Aid.
A questo punto inizia la seconda parte della carriera di Brian, quella solista, che lo vede esordire nel 1988 con l’omonimo Brian Wilson, un ottimo album di moderno pop con ovvie reminiscenze Sixties che ci riporta un musicista in sorprendente forma. Da questo momento in poi la vita artistica del nostro procederà tra alti e bassi, ma quasi sempre lontano dagli ex-compagni, con dischi di materiale originale spesso, anche se non sempre, degni del suo nome (i migliori dei quali sono Imagination del 1998, Gettin’ In Over My Head del 2004 e That Lucky Old Sun del 2008) e lavori in cui riprende pagine del suo passato come nel luccicante Pet Sounds Live del 2002 e, due anni dopo, nell’ambizioso Brian Wilson Presents Smile, in cui riesce finalmente a proporre per intero anche se in versione attualizzata il famoso «album-fantasma» dei Beach Boys.
C’è tempo anche, nel 2012, per una reunion-evento con i suoi commilitoni di un tempo: è il loro cinquantesimo anniversario e, ciò nonostante, That’s Why God Made The Radio è un album poco riuscito, con un Brian alquanto appannato in fase di scrittura (meglio andrà il tour seguente). Negli ultimi anni, il progressivo peggioramento delle sue condizioni di salute lo spinge al ritiro definitivo e ufficiale dalle scene. Il tutto avviene nel 2022, dopo alcuni concerti in cui fa fatica persino a muoversi in maniera autonoma.
Ora, improvvisa ma non del tutto inattesa, la morte, ma mi piace pensare che si sia già ricongiunto con i fratelli Carl e Dennis ad armonizzare a tre voci per il piacere e godimento degli angeli. E alla faccia di Mike Love, da diversi anni ribattezzatosi leader dei Beach Boys ed in perenne tournée con una versione tarocca e imbarazzante del leggendario gruppo.