Recensioni

Cry Baby, Under Cover Of Night

Cry Baby
Under Cover of Night
Filibusta Records
***1/2

Per quanto questo disco abbia un titolo che rimanda agli Stones dei primi eighties, con esso non ha da spartire nulla. Invece questi Cry Baby (la svizzera Sabina Meyer, alla voce e al basso, e gli italiani Alberto Popolla a clarinetto, chitarra e pure basso e Ferdinando Faraò alla batteria) fanno una musica che più anticonvenzionale non si potrebbe, stilisticamente situata tra il sound di Canterbury e certa avanguardia europea. E ne traggono fuori questo bellissimo Under Cover of Night, un misterico, affabulatorio e piacevolissimo itinerario lungo dieci tracce, prodotte dalla Filibusta Records.

L’abbrivio si ha con Run, brano implorante tra gli Slapp Happy e la Fiona Apple di Tidal, e a seguire Winter, che sembra uscita dalla obliqua penna di Peter Blegvad. Si pensa, invece, ai Can nell’ascoltare Evening (che vede protagonista il noising della chitarra dell’ottimo Gio Mancini), mentre nella cover della River di Joni Mitchell il mood vira verso i territori di Robert Wyatt. Echi di Norma Winstone si intravedono in Come (suggestivo l’intervento di clarinetto), a differenza di Rock che ha i colori della migliore Annette Peacock.

Alquanto prossima alle atmosfere dei Vanishing Twin è Stay (con un ispiratissimo Eugenio Colombo al sax alto), laddove la Catholic Architecture del summenzionato Wyatt si palesa, invece, oscura e sospesa come un brano dei This Mortal Coil. E si giunge così alle finali Sun e Black Is The Colour: nella prima il trio Meyer-Popolla-Faraò dà una personale visione di certe sonorità dei migliori Portishead; nella seconda talune progressioni alla P.J. Harvey si sposano ad un cantato che rimembra determinate nuance di Jay Clayton.

A fine ascolto sorge spontaneo un quesito: è jazz questo? Premesso che le blue note non sono qui la cifra dominante, se per jazz intendiamo una musica con una tipica vibe, libera da rigidi steccati, capace di re-interpretare impulsi che provengono dai contesti più disparati e puntualmente cangiante nel suo avere un’identità… sì, è proprio jazz!

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