Foto © Lino Brunetti Ritmo. Se dovessi decifrare in una parola lo spettacolo al quale il pubblico del Santeria ha assistito numeroso venerdì, descriverei l’esibizione come un caloroso abbraccio ai battiti che han misurato la serata in quel che Harding stesso chiama Slop’n’Soul: una vivida miscela di soul- funk, rock e psichedelia. Nell’ambito di un tour europeo che in Italia ha visto programmare ben tre appuntamenti, fra Bologna, Roma e Milano, l’artista originario di Saginaw, Michigan, ha ipnotizzato la platea con un’esibizione carica e magnetica, appropriandosi a pieno titolo del riconoscimento regalatogli dalla critica come icona soul contemporanea.
I cinque componenti della band, convincenti fin dal primo accordo, sono entrati subito nel ruolo e dietro agli strumenti hanno dato il via a quel flusso che avrebbe accompagnato la platea dentro una dimensione immateriale, magicamente viva durante tutta la serata. La spina dorsale ritmica di basso e batteria dentro a un groove in sedicesimi e sopra a un palco dove ogni amplificatore ha il suo microfono, il suono viene regolato alla perfezione. Un tuffo nel coure più autentico degli anni Settanta, che connette su ammalianti vibrazioni lungo tutto il concerto.
Si apre con Out in the Black, fra dimensioni eteree e un assolo ai tasti che conduce le armonie. Banh Me sfuma i contorni tra il soul e il funk, un falsetto delicato e un delay a dar profondità al suono, mentre il pubblico che dondola le teste si lascia rapire da quel senso di spazialità che i musicisti costruiscono. «Noi lavoriamo duro», dice Harding, «non siamo così fortunati come chi lavora per le Major. Chi di voi ha il nostro nuovo disco?» chiede prima di intonare Hard as Stone: «Finché ti piace sudare… non avremo rimpianti».
Departures and Arrivals : Adventures of Captain Curt occupa l’intera prima parte di concerto: quarantacinque minuti in cui si viaggia dentro «quell’eterno movimento sonico» che è il mood di Curtis Harding. Dal vivo lava via la patina, propone una scaletta di numerosi pezzi brevi perché non serve aggiungere, ma essere incisivi: è il soul beat che chiama, occorre solamente fare in modo di seguirlo. Felt It Inside viene pompata da un robusto basso, sale dallo stomaco, tra effetti di chitarra e un gran lavoro d’organo, che per la verità si da fare tutto il tempo, mentre Running Outta Space mette in bella mostra le capacità vocali del nostro divo dagli occhiali scuri e regala un ritmo morbido sul quale continuare ad ancheggiare.
Niente jam, niente tempo per disperdersi: The Power meriterebbe di diritto di entrare in una compilation Dancefloor Jazz per potenza e magnetismo, There She Goes rallenta, dondola, accompagna, fino a Curtis che si mette a far cantare tutto il pubblico in una versione di I Won’t Let You Down che somiglia al lato Danger Mouse dell’epoca Black Keys.
Si entra nel secondo tempo lasciando che lo spazio sia occupato, questa volta, dai suoi primi tre album. Si respirano i battito, i crescendo, gli stop e le ghost notes, gli effetti wah wah e la ritmica, secca e percussiva, quella che percorre come un brivido il midollo, Welcome to my World piccola, assieme alle ripetizioni a raffica di Next Time, alle onde emotive della tastiera di Wednesday Morning Atonement e le scosse sonore di I Need Your Love.
Un concerto da ricordare, intimo, leggero, senza eccessi, seppur espressione di qualcosa che non ti lascia fermo, ma che agita con delicatezza entrando dentro a quei pensieri che venerdì sera hanno preso forma attorno al viaggio sopra l’astronave.