Foto © Rodolfo Sassano Il concerto, in programma per le 21:45, prende il via con una leggera attesa. Il pubblico è ancora seduto ai tavoli, in un’atmosfera rilassata da fine cena. Nessuna frenesia: si respira già la promessa di una serata intensa. Blues-rock primordiale e magnetico: Eric Sardinas incendia il Phenomenon. L’artista statunitense non suona il blues. Lo incarna. Lo mastica, lo graffia, lo urla, lo accarezza. E il pubblico del Phenomenon di Fontaneto D’agogna, nella serata di giovedì 16 ottobre, ha avuto l’onore di assistere a un rito: un concerto che non è stato soltanto una performance, ma un’autentica esperienza sonora tra slide infuocate, ballate silenziose e jam session selvagge.
Il tour europeo, iniziato lo scorso marzo e passato per Spagna, Austria, Polonia e Croazia, ha fatto tappa anche in Italia con tre date, e quella in provincia di Novara ha lasciato un segno profondo. Sardinas, classe 1970, è salito sul palco col suo Dobro elettrificato – strumento diventato il suo marchio di fabbrica – e ha subito mostrato che il suo rock-blues non ha nulla di educato o manierato: è slabbrato, ruvido, pieno di cuore.
Quando il sipario si apre, Eric Sardinas e la sua band stanno ancora accordando gli strumenti. Ma non si tratta di preparativi svogliati: è già musica. Senza presentazioni, Sardinas imbraccia il Dobro, si avvicina al pubblico, canta fuori microfono. Cala il silenzio: la calma prima della tempesta per essere lirici. Improvvisamente Sardinas alza il volume dello strumento. Un gesto semplice, ma d’impatto, che inaugura il live con un groove, destinato a restare protagonista per tutta la durata del concerto. Feeling, groove e dinamica saranno i tre pilastri del set. La slide graffia, ondeggia, urla: il concerto è cominciato: My Kind of Woman (Devil’s Train) apre lo show con otto minuti intensi. Senza stacchi, parte l’adrenalinica How Many More Years (Boomerang), con un assolo filtrato dal wah-wah, unico pedale oltre al Marshall, che strappa applausi.
Con il pubblico già caldo, Sardinas si concede un momento di gratitudine: «Questa è indubbiamente una delle mie esperienze preferite qui in Italia. Grazie, Giancarlo» – rivolto al promoter Giancarlo Trenti (Slang Music) – «lasciate che vi presenti la mia band». E lo fa con orgoglio: Jason Langley (Jimmy Carpenter Band) al basso – gran classe, groove e tecnica sopraffina – e Mario Steven Dawson (The Galactic Cowboy Orchestra) alla batteria, vero showman, capace di suonare con le mani come fosse su dei bonghi in piena trance tribale.
Tra acustico e jam psichedeliche, la serata procede tra dinamiche mozzafiato. È nei brani più intimi che Sardinas riesce a incantare gli spettatori. Procede I Can’t Be Satisfied (Treat MeRight), ballad suonata tra armonici, volume quasi nullo, fino all’esplosione emotiva del canto. Sardinas canta sempre rivolto al pubblico, quasi fuori scena, ma pienamente dentro il blues. Perde perfino il bottleneck per la foga, ma nulla lo scuote: Langley prende il testimone con un assolo di basso spettacolare, tra slap, armonici e fraseggi funky, mostrando una padronanza tecnica impeccabile e una musicalità da veterano, poi Sardinas torna, rilancia il tema, aumenta la tensione e la dissolve. Le dinamiche sono magistrali. La sezione ritmica prende allora il controllo, in quella che sembra una vera jam session, e quando il basso lascia spazio alla batteria, Mario Dawson fa letteralmente esplodere il pubblico: lancia le bacchette in aria e continua a mani nude, come se stesse suonando dei tamburi africani. È una trance musicale, un momento tribale e collettivo che trascina la sala in un groove ipnotico. Sardinas recupera la slide con nonchalance, e rilancia con un assolo tagliente, quasi psichedelico, tra bicordi e note strappate che sembrano esplodere fuori dall’amplificatore. Le dinamiche si alzano, si abbassano, si distendono. È questo il vero cuore del live: intesa e libertà totale.
Il chitarrista sui generis alterna due chitarre resofoniche Dobro molto retrò, adeguatamente elettrificate con una tecnica hybrid picking affilatissima, il bottleneck rigorosamente sul mignolo sinistro (nonostante sia mancino), e il suo stile è un incrocio perfetto tra Johnny Winter, Howlin’ Wolf, Rory Gallagher e il lato più “sporco” di Stevie Ray Vaughan. Particolarmente memorabile la sua interpretazione di I Wonder Who, molto più vicina alla rilettura ruggente di Gallagher che alla versione originale di Ray Charles. Il pubblico ondeggia, partecipa, sente ogni vibrazione.
Sardinas non è solo tecnica. È cuore. È l’altra faccia della slide, lontano da un suono alla Derek Truck e vicino a quel blues più ruvido. Lo si sente in If You Don’t Love Me (Boomerang), introdotta così: «Questa canzone parla d’amore. Del bello e del brutto. Ma per me è positiva. L’amore agisce in modi misteriosi, ed è questo di cui parla.» Una ballad sentita, partecipata, con il pubblico che canta il ritornello come un coro gospel.
Il bis arriva dopo una lunga ovazione: tavoli battuti, piedi che picchiano il pavimento, qualcuno grida: «Eric ti amo, ma sono sposato!» Sardinas torna sul palco con un sorriso enorme – «Ho la sensazione che forse avremo la possibilità di vederci molto presto! Spero sia così, e se non sarà così vi rivedrò prima o poi, lo spero. La musica è bellissima, il mondo è bello, facciamo del nostro meglio per restare uniti, amare gli altri e ci vedremo presto. Va bene? Un’altra? Allora farò un blues». Concede un’ultima gemma al pubblico del Phenomenon: Backdoor Man in una versione feroce del brano di Howlin’ Wolf. Chiude il set lasciando il Dobro a urlare di feedback, rivolto all’amplificatore come un addio urlato alla notte.
La vera perla arriva nel dopo concerto: con cappello in testa, treccine ai lati alla Willie Nelson ed un sorriso sincero, Sardinas scende tra il pubblico, firma dischi, si lascia fotografare e ringrazia uno ad uno i presenti. Chiacchieriamo pochi minuti e mi dice con orgoglio: «Amo l’Italia. Mia mamma è di Parma sai? Mentre mio padre è cubano. Ma io sono cresciuto in Florida».
La sala non era piena come meritava l’evento, ma l’atmosfera è stata comunque calda, partecipe, rispettosa. Il suono – ad alto volume ma bilanciato – ha permesso di godere di ogni dettaglio: le sfumature timbriche del Dobro, il lavoro di fino della sezione ritmica, le dinamiche costruite e la voce di Sardinas. Assoli urgenti: ogni nota suonata con intenzione, peso ed urgenza. Sardinas non si accontenta di fare blues. Lo trasforma, lo reinventa, lo rende suo. E questo tour – tra cover e vecchi classici dell’artista – ne è la prova. Se amate il blues autentico, quello con radici nel Delta, ma col sangue elettrico, fatevi un regalo: andate a vedere Eric Sardinas dal vivo. Non è solo un concerto. È il blues come dev’essere: crudo, sincero, vivo.