Foto: Giovanni Vanoglio

In Concert

Gary Clark Jr. live a Gardone Riviera (BS), 24/6/2019

Un ordinario lunedì sera sulle rive del lago di Garda può trasformarsi in qualcosa di risonante ed enigmatico allo stesso tempo. E’ l’effetto che il concerto di Gary Clark jr e la sua band, nell’incantevole scenario dell’anfiteatro del Vittoriale, ha esercitato su chi scrive, quel tipo di spettacolo dal quale ti allontani con una dolceamara sensazione, in bilico tra il gusto aspro di ciò che forse non sai apprezzare e il gradevole sapore di tutto il resto. Così ti svegli la mattina dopo ancora pungolato dagli spazi da colmare, come se qualcosa ti fosse sfuggito. 

Su un palco dall’indiscusso fascino romantico, dietro al quale la vista si perde sullo specchio d’acqua che attende ansioso le luci del tramonto, la strada verso l’America infuriata del terzo millennio viene aperta da un Nic Cester in splendida forma. Il cantautore australiano, accompagnato dal progetto Milano Elettrica, scalda a dovere il set per l’headliner della serata presentando i brani del suo ultimo Sugar Rush uscito lo scorso anno. La sua voce piacevole si modula sul sound robusto di una formazione che comprende nomi importanti del panorama indie italiano: il batterista Sergio Carnevale (Bluvertigo), il chitarrista Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion), il percussionista Daniel Plentz (Selton), il pianista Raffaele Scogna (Ghemon) e il bassista Roberto Dragonetti si muovono su un’ottima sintonia. Un cambio palco come da protocollo e il rock old style dell’ex leader dei Jet lascia spazio allo tsunami postmoderno dell’artista americano. Cappellaccio e fazzoletto bianco nella tasca posteriore dei jeans, Gary vanta una presenza scenica che, dall’alto della sua longilinea corporeità, riesce a comunicare carisma senza bisogno di loquaci tentativi lusinghieri verso il pubblico presente. Gary Clark Jr e la sua band, che suona compatta come una prima linea in un campo da rugby, infilano una doppietta dalla trascinante ritmica che infiamma subito il set, aprendo con Bright Lights e filando via su Ain’t Messin ‘Round. Il chitarrista texano, con la sua Epiphone Cherry Casino che diventa all’occorrenza una SG diavoletto o una Flying V dalla linea futuristica, mette in mostra una ritmica eccellente. Suono, tecnica, tempi e un’intelligenza negli assoli che non scade mai nel tecnicismo, Gary si lascia guidare da cuore e passione.  Il groove rimbalza sulle linee curve del teatro, fra misure travolgenti, mescole ingarbugliate di un sound saturo, convulso, caotico. Gary Clark Jr. i puristi li ha sempre fatti un po’ incazzare” leggevo tempo fa da qualche parte. Sound e approccio black, potente, tortuoso, che si insinua in ogni brano, dalla versione infuocata di What About Us al soul funk di Feed The Babies, dalle provocatorie distorsioni di This Land al paranoico hip hop di Got To Get Up, fino al reggae elettronico di Feelin’ Like A Million. 

Un live d’impatto, ottimo in alcuni frangenti, come la lunghissima jam su When My Train Pull In, o il sensuale e sanguigno rock blues di Our Love, la preziosa ballata sporcata di soul che è Pearl Cadillac e ancora l’energico ritmo in crescendo di I Got My Eyes On You, o il bluesaccio da brividi della cover di 3 O’Clock di BB King. Molti pezzi, però, vengono spinti oltre misura su arrangiamenti che si affidano a uno smodato uso delle tastiere, per alcuni, forse, segno di innovazione e modernità, per la sottoscritta suoni che non l’hanno mai convinta. Il synth loopy, gli effetti altisonanti dettati da sperimentalismi estremi (che a tratti sembrano identificarsi in un Alan Parson smarrito nel cyberspazio) e un impiego esagerato dell’elettronica, forse impregnano il live di sovrabbondanza. Eppure la band è muscolosa, viaggia compatta, l’uso dell’organo, quando compare, risulta gradevole e la batteria è un motore a pieno regime: Johnny Radelat quando picchia lo fa con colpi densi, vigorosi, mai fuori posto. E l’encore, dopo quasi due ore di show, è un vortice emotivo che dapprima scalda la platea sulle note della deliziosa soul ballad Guitar Man, poi esplode in una bomba elettrica sulla travolgente versione di Come Togheter.

Da un lato c’è questo straordinario chitarrista, immediato, efficace, che possiede una padronanza mostruosa dello strumento, abile cantante, che sa giocare con la voce passando da un sensuale falsetto alla Marvin Gaye a toni pieni e caldi con una facilità che sembra estrema. Dall’altro un personaggio libero da qualsiasi dogma, che insegue sonorità creative, colora i messaggi da gridare, che è espressione di tante cose e, con buona pace dei puristi, non si limita ad andare in una sola direzione musicale ma mescola tutto ciò che lo avvicina alle sue radici. Forse il tentativo non è tanto quello di ampliare il suo pubblico, ma comunicare al mondo il disagio di una fetta d’America del nostro tempo attraverso la musica che le appartiene, attraverso il linguaggio sonoro che più le si addice. Sta di fatto che se l’intento era, sull’onda dell’ultimo disco, esprimere inquietudine, collera, denuncia, allora chi è riuscito a coglierlo forse è anche arrivato a comprendere più a fondo un live di questo genere. Catapultati in un delirio di molteplici influenze, i puristi saranno irritati, mentre i riflessivi ancora in attesa che i chiaroscuri migliorino di definizione.

Intanto l’armonia delle architetture di un contesto così sublime, non ha potuto che impreziosire il quadro. 

A un certo punto, al giungere della notte, lo sguardo si perdeva nella meravigliosa prospettiva sullo sfondo, ammirando i colori che si scurivano sul lago e i primi barlumi delle rive in lontananza… Un anfiteatro strapieno, un audio sublime e la veduta ottima da qualsiasi postazione completavano l’opera. Eppure al quadro mancava qualcosa… un quadro che poteva essere perfetto.

 

 

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