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Genio e sregolatezza: Sly Stone, 1943-2025

Dopo una lunga malattia broncopolmonare, anche Sylvester Stewart, aka Sly Stone, se n’è andato.

Eppure, sembrava davvero un uomo dalle molte vite, come titolava quasi profeticamente il docufilm Sly Lives! (2025), diretto da Ahmir “Questlove” Thompson e ispirato a un libro per il quale lo stesso batterista dei Roots aveva scritto una sentita prefazione. Il volume, Thank You (Falletinme Be Mice Elf Agin), è appena uscito anche da noi, nella traduzione di Alessandro Besselva Averame, per Jimenez, mentre il molto opportuno sottotitolo della pellicola — The Burden Of Black Genius, ovvero «l’onere del genio nero» — sottolineava le difficoltà incontrate dall’artista nel reggere il peso del successo.

Una popolarità piovutagli addosso quasi di colpo, grazie a una torrida esibizione in quel di Woodstock, sebbene il percorso di Sly fosse già, all’epoca, lungo e sorprendente. Era stato infatti un musicista prodigio da bambino, il membro di un gruppo doo-wop multirazziale — i Viscaynes, coi quali incise, nel 1961, i primi 45 giri — durante le scuole superiori, autore e produttore di Beau Brummels e Great Society per la casa discografica Autumn, DJ per l’emittente californiana KSOL-AM (da lui ribattezzata K-SOUL), turnista per molti colleghi dell’area di San Francisco (dove viveva) e fondatore, nel 1966, di Sly & The Family Stone, una delle prime band multietniche a raggiungere un successo di proporzioni epiche.

Nel gruppo, Sly era il cantante, compositore e tastierista. Il loro sound, un esaltante mix di generi che qualcuno definì progressive soul: liriche potenti e di forte consapevolezza sociale, un canto stentoreo, archi e tastiere in bell’evidenza, ovvia presenza dei fiati e una sezione ritmica occupata nel pompare funk a più non posso, intrecciando il tutto a frequenti svisate psichedeliche.

La gavetta fu abbastanza dura, ma il successo arrivò, finalmente, con il singolo Everyday People (1968), seguito poi dal quarto album della formazione, l’incandescente Stand! (1969) comprensivo della I Want To Take You Higher che spopolò anche a Woodstock e, grazie alla performance immortalata nell’omonimo e celeberrimo film-concerto di Michael Wadleigh, galvanizzò poi il mondo intero. Seguirono anni di difficoltà, ma ormai il nome di Sly Stone era entrato nell’olimpo del rock (non solo del soul o del r&b). La loro esibizione al Festival di Wight contribuì ad allargarne la fama, consolidata da brani popolarissimi come Stand! e Dance To The Music. Subito la casa discografica — la Epic — tentò di monetizzarne il successo, pubblicando nel 1970 un improvvido Greatest Hits.

Purtroppo, le droghe cominciarono a subentrare nella vita di Sly, rendendo difficile gestire la band che, comunque, nel 1971 diede alle stampe il capolavoro There’s A Riot Goin’ On, fortemente permeato dalla presenza solista di Sly. Il disco, che raggiunse la vetta delle classifiche USA (non solo quelle r&b), fotografava drammaticamente la fine dei sogni di pace e amore coltivati da una costa all’altra nella cosiddetta era «dell’acquario» e l’irrompere dei disordini razziali, in un abbraccio ideale (benché fumatissimo) con la presenza emergente delle Pantere Nere e la presa di coscienza del nazionalismo afrodiscendente.

Poi, lentamente, Sly abbandonò la band e si avviò verso una carriera solista decisamente minore, almeno rispetto ai fasti precedenti. Il cambio di etichetta da Epic a Warner non contribuì a rilanciare la carriera di un erratico Sly Stone, che di fatto visse a lungo una scombussolata seclusion, entrando e uscendo da vari centri di disintossicazione. Però, l’amore per la musica non lo abbandonò mai. S’interessò alle nuove possibilità offerte dall’elettronica e dai computer, anche se a poco servirono l’ingresso nella Rock & Roll Hall Of Fame del 1993, alcune sue apparizioni ai Grammy e i tentativi, tanto numerosi quanto sgangherati, di rimettere insieme i cocci della band.

Sly & The Family Stone, furono, insieme a James Brown, George Clinton e Bootsy Collins i veri antesignani del moderno sound funk che trovò poi eredi in Prince e Rick James, e la loro influenza si sente nei molteplici campionamenti utilizzati in abbondanza da una moltitudine di artisti rap. Per quanto riguarda la discografia, suggerisco il magnifico box, targato Epic, Sly & The Family Stone: Higher! (2013), composto da quattro, stupendi CD riepilogativi, ma soprattutto un libro, magnificamente illustrato, come quello nello stesso anno realizzato da Arno Konings, dove viene messo in evidenza quanto il look di Stewart abbia influenzato la moda afro degli anni ’70. Il tutto da integrare, ovviamente, con il superbo There’s A Riot Goin’ On e, in alternativa al sopracitato cofanetto (non so se ancora disponibile), con Sly Lives!, perfetta compilation quest’anno uscita come soundtrack del docufilm menzionato in apertura.

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