© Levine – Lenquette – Garcia – Alix Ci sono artisti che attraversano continenti, decenni e stili con coerenza, curiosità e ostinazione. Gustavo Anthony Nelson, in arte Tav Falco, è uno di loro. Performer visionario, fotografo, musicista, regista, autore di happening e riflessioni mitopoietiche, è oggi accompagnato da un altro viaggiatore: il chitarrista e produttore Mario Monterosso, catanese di nascita e memphisiano per vocazione. Questa conversazione è il racconto a due voci di un’amicizia artistica e umana, nata in Italia e fiorita sul Mississippi. Abbiamo parlato di spiriti, canzoni, fantasmi, strumenti, traduzioni, fughe, ritorni. E della musica come chiamata misteriosa che attraversa le epoche.
Ci ritroviamo a parlare nel momento in cui hai trovato una tua dimensione a Wongamat Beach, in Thailandia. È un luogo che sembra averti offerto sia uno spazio mentale sia fisico dove coltivare la tua arte.
Tav Falco: Sì, Wongamat Beach è diventata casa. Ho lasciato Vienna durante il picco della pandemia per visitare il mio editore, James Williamson, a Bangkok. Poi un mio amico fotografo, originario di Memphis, mi ha invitato qui. Abito al 16º piano, con vista sul Golfo del Siam. Ho anche uno studio a sette minuti da casa in moto. Il clima è ideale, posso andare in moto ogni giorno. Ho appena preso una Triumph Speed 400, leggera, agile, precisa. Una meraviglia, costruita proprio qui. La vita costa meno, anche le cure mediche. Una visita dal dottore costa tra i 25 e i 30 dollari.
Un buon compromesso per un artista che vuole lavorare senza troppe interruzioni.
TF: Esattamente. Qui posso concentrarmi. Nessuna distrazione, se non quelle che mi creo da solo. Ho tutto quello che serve: il mio studio, la moto, il cielo e la connessione. Posso registrare, montare video, creare. E poi ci sono le ragazze, certo. Ma questa è un’altra storia.
A proposito di creazione: i tuoi video più recenti, penso alla trilogia di Urania o a certi reel pubblicati sui social, sembrano piccoli atti di teatro simbolico, quasi delle liturgie. Come li concepisci?
TF: Come incursioni. Non sono videoclip promozionali. Sono azioni poetiche, visionarie. Continuano quello che ho iniziato con le mie art action negli anni Settanta. Tutto il mio lavoro è parte della stessa canzone. Che sia un disco, un film, un happening o una foto. C’è un «io segreto» che li attraversa tutti. E chi ascolta, chi guarda, cerca proprio quello. Tutti i miei lavori partono da lì, anche il nuovo album.
È come se ogni video fosse un’estensione dei tuoi happening. Quando fai quei reel, quelle incursioni online, cos’è che ti muove? Impulso? Protesta? Poesia? Presenza?
TF: Tutto questo insieme. Oggi ne parlavo su Zoom col mio agente, per il Pink Lemonade Show su Totally Wired Radio. Io canto una sola canzone. Che sia scritta, filmata, suonata o cantata. È il mio «io segreto». È quello che le persone vogliono. Quando accendono la musica, entrano in un museo, guardano un film: vogliono vedere come tu vedi. Come senti. Come interpreti. Ecco cosa cercano. E tutto quello che faccio viene da lì.

Sei immerso nei misteri orfici. Ma qui parli anche del mito come forma di conoscenza.
TF: Sì. I misteri orfici della dimensione onirica. Gli oracoli. I simbolisti erano affascinati da questo: Jean Cocteau nel cinema, Arthur Rimbaud e Charles Baudelaire in poesia. Andavano alle sorgenti, si guardavano nell’acqua e trovavano simboli, inconscio, psiche. Da lì nasceva il gesto poetico. Il teatro. La tragedia. La commedia. Fino alla Commedia dell’Arte, fino al Rinascimento. Quando vivevo a Venezia, vedevo compagnie della Commedia dell’Arte e suonatori di bagpipe.
Zampogne, sì. Noi le chiamiamo così, non bagpipe ma zampogne. Gli zampognari sono ovunque, a Natale. Nel disco nuovo, Desire on Ice, dici che «alcune cose non devono essere conosciute». È ancora quell’orfismo?
TF: Proprio così. Il prologo dell’album lo dice: ci sono misteri che è meglio non violare. Non dobbiamo sapere tutto. Non sempre il metodo scientifico è la via. Possiamo usare la logica, ma la psiche funziona diversamente. Certo, non sto dicendo di abbandonarci ai miti e alla superstizione. Ma attenzione: c’è una differenza tra religione, superstizione, ed evocazione.
Tu evochi.
TF: No, è fenomenologia psichica. Possiamo chiamarla così, se vogliamo. È un fuoco strano che brucia in tutti noi. L’artista deve toccare quel fuoco. La creatività viene da lì. Dalle acque oscure dell’inconscio. Fuoco e acqua insieme. Al fondo di quell’acqua c’è fuoco. Lì vado io. La mente razionale serve a imparare, per costruire strutture musicali. Ma io ho iniziato come artista visivo. Ho preso in mano la chitarra come si prende in mano un pennello. Come si faceva nell’East Village. Era un’estetica primitiva, non formale.
Ora però lavori con musicisti formidabili, come Mario Monterosso.
TF: Sì. Da quando ho incontrato Mario nel 2014, a Roma, è cambiato tutto. Lui è il produttore dei miei dischi, è un chitarrista immenso. Mi ha introdotto a musicisti meravigliosi: Francesco Danilo alle tastiere, Matteo Schiaparelli al mixer, tutta la scena della Conventicola degli Ultramoderni. Alberto Botta, Peppe Ricciardo al sax. Peppe ha il suono di Lester Young, davvero. Gliel’ho detto. È ineffabile. E loro conoscono intimamente la musica, la sentono. Leggono lo spartito, comunicano tra loro con un’intelligenza che mi affascina. Sto imparando ogni notte. Studio le modalità classiche. Mi ci sto immergendo. Negli ultimi tempi sto studiando i modi musicali antichi — quelli che venivano usati prima della codificazione medievale nella musica liturgica. Erano simili a quelli poi adottati nella Chiesa, ma leggermente diversi: si basavano su quattro intervalli principali e avevano una relazione diretta con la metrica poetica dell’antichità. C’è un libro fondamentale su questo tema, The Founding of English Meter, scritto da John Thompson, professore alla Columbia. Sua figlia Louise è una mia cara amica, ed è stata lei a introdurmi a quel testo, che ha avuto un’influenza forte sul mio lavoro. Non tanto per un legame diretto con i misteri orfici, ma per il modo in cui mette in relazione la poesia con la musica. La musica, alla fine, è una forma pura di emozione. Non la puoi toccare, è assoluta, è un’astrazione totale. E quando arrivi al fondo della matematica, cosa trovi? L’astrazione. L’universo stesso, in questo senso, è magnifico. Il mio lavoro cerca di evocare emozioni, forme, strutture — e poi di decostruirle. Per anni ho fatto proprio questo: prendevamo generi musicali, cliché, e li facevamo esplodere. È sempre stato un atto artistico, una performance, prima ancora che musica in senso tradizionale. Tutto questo è iniziato ben prima di prendere in mano una chitarra, ai tempi dei gruppi artistici Televista e Big Dixie Brick Company. Ne scrivo in Ghost Behind the Sun, il primo volume di Mondo Memphis. Lì, tu ed i lettori del Buscadero troverete tutto. Per quanto riguarda Desire on Ice, l’idea di reinterpretare alcune mie canzoni in chiave nuova è venuta da Mario. Da quando ci siamo incontrati, ha sempre suonato con me, sul palco e in studio. Alla prima session per Command Performance, ho capito che aveva qualcosa di speciale. E abbastanza spirito sperimentale per uscire anche dalla sua formazione rockabilly. Gli ho detto, «Mario, questo disco lo devi produrre tu». E lui ha accettato. Abbiamo scherzato: «È un lavoro sporco, ma qualcuno lo deve pur fare». Io non sono un musicista professionista. Suono in modo intuitivo. Non sapevo distinguere una nota da una molecola. Ora sto studiando, sto imparando i modi antichi. Ma all’epoca, lavoravamo su un mio brano — Memphis Ramble — che non aveva strofe convenzionali. C’erano otto battute qui, dodici là, un inciso, un ritornello… e lui cercava di normalizzarlo. Gli dissi: «Mario, guarda Bob Dylan. Pensi che quando ha scritto Highway 61 Revisited gli abbiano chiesto di ridurla a tre minuti e mezzo o di aggiustare le metriche per farle combaciare con le spettative accademiche?». Così, gli ho proposto di dimenticare alcune regole, per affrontare la musica in un altro modo. E lui ha accettato. Io, dal mio canto, cerco di avvicinarmi alle regole che pure dovrei sapere ma in realtà ignoro. E come persone e collaboratori intelligenti, la somma delle parti è più grande dei singoli addendi. Abbiamo lavorato come si fa a Memphis, alla vecchia maniera: niente prove, si entra in studio e si costruisce il pezzo sul momento, lentamente, lasciandolo emergere. In Europa non è così che si lavora. Ma Mario ha aperto la mente. Ed è venuto fuori un gran disco. Da allora, abbiamo continuato a costruire. Ogni volta che torniamo in studio o su un palco, siamo migliori di prima. Mario voleva trattare le mie canzoni originali in modo nuovo, riflettendo i nostri gusti attuali: colonne sonore italiane anni Sessanta, jazz beat di fine anni Cinquanta. Tutto questo si sente nel disco. Ci sono influenze da Pull My Daisy, quel film di Robert Frank con Jack Kerouac e la musica di David Amram. È uno spaccato autentico della New York beat. E anche io, prima di trasferirmi a Memphis, ero un ferroviere sulla Missouri Pacific Railroad — il lavoro più bello che abbia mai fatto. Avrei dovuto restarci. In quel periodo ho conosciuto May Stover, compagna di Jimmie Rodgers, che aveva una pensione per ferrovieri a Memphis. Lei aveva dei poteri: faceva camminare una moneta d’argento sulle dita, leggeva nel pensiero. Ne parlo nel libro. Devi leggerlo, Francesco. Quando suggerisci che il pensiero razionale deve fare spazio all’inconscio, sfondi una porta aperta. Lo dico anche nel prologo del disco. Non è superstizione, è fenomenologia psichica. Carl Gustav Jung ha studiato i Misteri Orfici, la Kabbalah, i simboli, i gesti, le forme primordiali dell’anima. I Rosacroce, la massoneria… tutto parte da lì. E tutto è sempre stato minacciato: da dentro e da fuori. Gli archivi bruciati, i templi distrutti, le biblioteche profanate. Ma certe verità resistono nei miti, nei tarocchi, nei personaggi della Commedia dell’Arte, nella musica — che è pura vibrazione. E la morte? È solo una trasformazione. Cambia lo stato dell’essere. Non credo necessariamente nella reincarnazione, ma ogni cosa vibra. Anche una pietra. Gli alberi parlano tra loro. I delfini. Le balene. Noi stessi parliamo con la voce delle vibrazioni. E la musica è proprio questo: emozione pura attraverso il suono. Sai, a volte mi colpisce tutto in una volta quanto il linguaggio sia un’astrazione. È incredibile come riusciamo a metterci d’accordo su un suono, su un segno grafico, e su ciò che rappresenta. E da lì costruiamo tutto: pensieri, numeri, concetti. Anche la matematica — in apparenza così concreta — si regge in fondo su parole e simboli. Scriviamo un numero, ma in realtà stiamo rappresentando una vibrazione.
Come nella musica.
TF: Esatto. Pensa a due note nella scala occidentale — il Do e il Sol. Il rapporto tra le loro vibrazioni è di 3 a 2. Il Do vibra una volta, il Sol vibra tre volte. Su questo costruiamo le armonie. E poi arrivano i geni, come i grandi del tango o Haydn e Beethoven, e costruiscono interi mondi partendo da quelle relazioni.
E l’opera, che ti è sempre stata cara…
TF: Lì entrano in gioco i librettisti. Prendono i miti dell’antichità — quelli che affascinavano Jung, che stavano alla base dell’inconscio collettivo — e li mettono in scena con potenza emotiva. È quello che cercava Cocteau nei suoi film. Io ho seguito la stessa scia, fin dall’inizio. Il rock’n’roll, il rockabilly — anche quelli erano un modo per arrivare altrove. Erano musica voodoo spontanea, rituale, quasi ingenua nei testi. Come dicevo: spoken music. Musica parlata. Ma attraverso di essa si poteva aprire un varco.
Verso l’Orfeo che è in te?
TF: Esatto. Il blues, più del rock’n’roll, mi ha permesso di accedere a quel luogo musicale e poetico dove la canzone diventava rito. E non serviva che le parole fossero profonde. Pensa a Dylan. Anche lui parte dal folk. E il folk, in tutte le sue declinazioni, ha un potere arcaico, radicale. Giuseppe Verdi, Gioacchino Rossini, anche Igor’ Stravinskij, tutti hanno attinto da lì.
Anche la musica napoletana, in fondo, è folk. E tu ne sei stato colpito…
TF: Sì, profondamente. Le melodie napoletane risalgono al Quattrocento. Torna a Surriento, Malafemmena… quei temi sono eterni. Prima che l’industria americana li trasformasse in Return to Me o It’s Now or Never, erano già lì, a vibrare nel cuore del Mediterraneo. Non è una questione di plagio, ma di ascolto del cosmo. Quelle melodie sono parte dell’universo.
Però tu non ti sei limitato a subirne il fascino. Hai cercato l’Italia. L’hai voluta.
TF: Sì. È successo nel 1978, quando incontrai Gianni Marcucci a Memphis. Un etnomusicologo italiano. Stava registrando i bluesmen per l’etichetta Albatross ed era affascinato dalla poesia della musica afroamericana. Io allora facevo cortometraggi e cominciavo a mettere insieme i Panther Burns. Gianni fu una guida. Mi parlava delle differenze tra il blues del Delta, dell’Hill County, del Tennessee. E poi mi invitò a Roma. A casa sua vidi le prime trasmissioni su Totò. Poi andai a Milano, ospite di mio cugino Little Victor (Macoggi). Trovai un libro su Totò della sua compagna Franca Faldini. Capii subito la potenza poetica di quel mondo. Totò è stato per me come un Antonin Artaud partenopeo. Da allora, non ho più smesso. Ho inciso Malafemmena, Guarda che luna, Quando vedrai la mia ragazza. Con Mario Monterosso abbiamo rifatto tutto con cura estrema. Ogni volta che torno su un palco per i bis, torno con Malafemmena.
E tutto questo è diventato un ponte.
TF: Un ponte musicale, culturale, spirituale. Grazie a Mario, a Victor, a Gianni, a tutti gli italiani che ho incontrato. E anche grazie ai fantasmi. Totò, Franca, Artaud. Continuano a danzare con noi.
Tu e Mario avevate già parlato della musica folk italiana?
TF: Sì, abbiamo parlato un po’ della musica folk italiana, e anche del fatto che l’intellettuale più importante in quel campo — parlo di etnomusicologia — era John Lomax Sr., che scrisse volumi interi per l’Università di Harvard. Fu lui a stabilire gli standard. Poi arrivò suo figlio, Alan Lomax — credo fosse suo figlio. Io l’ho incontrato al primo Greenville Blues Festival, in Mississippi.
Quindi hai cominciato ad ascoltare questa musica online?
TF: Esatto. Ho iniziato a trovare queste registrazioni su YouTube, e da lì è nata una vera fascinazione. Ad esempio per Salvatore Macheda: la sua voce, i suoi canti folk calabresi… Ne ho parlato con Mario, che mi spiegava come gran parte di questa musica sia composta in tonalità minore, con una forma abbastanza codificata.
Mario Monterosso: Sì, è tutto molto formalistico. Poche variazioni su un nucleo centrale. Poi ovviamente la musica napoletana si è evoluta, è diventata più sofisticata e ha influenzato la musica popolare. Più accessibile, più adatta al gusto popolare, con strofe in minore e quei meravigliosi ritornelli.
Devo assolutamente digitalizzare per te l’antologia in 15 CD della canzone napoletana interpretata da Roberto Murolo. Parte dal 1400…
TF: Oh sì, ti prego, mandami un link o dei file. Vorrei approfondire la letteratura che c’è dietro. Sarebbe fantastico. Anche perché, se io e Mario collaborassimo ancora, potremmo continuare a esplorare quella direzione. Abbiamo già lavorato insieme su La Brigantessa, che era nell’EP Club Car Zodiac. Mario mi ha aiutato molto con il canto — io non ho le corde vocali napoletane! Non mi sento mai completamente a mio agio con la mia voce, specialmente con questo tipo di musica.
Però La Brigantessa è un pezzo riuscitissimo.
TF: Sì, l’ho scritta pensando ad Adele Tirante, un’attrice siciliana incredibilmente creativa. L’ho vista a Roma, in teatro, in uno dei suoi spettacoli cabarettistici. Mario ha scritto tutta la musica per quel brano, mentre per altri (come Crying for More) ho portato io uno scheletro musicale, e lui ha costruito attorno quella visione comune che condividiamo. È un gran lavoro.

E come sono nati i featuring con tutti questi ospiti?
TF: Be’, è stata un’idea di Mario. Lui ha detto: «Hai collaborato con tante persone nel tempo, perché non fare un disco con tutti questi ospiti, ma scelti in modo coerente?». Non era una cosa tipo, «mettiamoci il nome famoso per vendere». No. Erano tutti artisti con cui c’era una relazione autentica.
[A questo punto, e già da qualche minuto, Mario Monterosso si aggiunge alla chiamata Zoom. Originariamente mi ero dato una quarantina di minuti con Tav per poi poter continuare l’intervista con Mario in italiano. In pratica, dopo un’ora Tav, generoso ed intrigato intellettualmente, ci regalava ancora il suo tempo e le sue riflessioni e l’intervista è diventata una sessione libera di quasi 120’ con chi scrive in veste di moderatore. Mario ci ha regalato oltre al suo tempo anche le sue riflessioni, spesso complementari a quelle di Tav e che rischiarano l’altro lato dei risultati artistici apprezzabili su Desire on Ice, accolto molto bene un po’ ovunque nei mercati occidentali.]
MM: Esatto. In alcuni casi è stato tutto naturale. Jon Spencer su Sympathy for Mata Hari, ad esempio. Non c’era bisogno di spiegargli niente. Lo stesso con Jolie Holland su Chamber of Desire — l’atmosfera era perfetta per lei. E anche se all’inizio Tav era incerto su Pete Molinari per Rue de la Lune, io ho insistito. Sapevo che avrebbe funzionato.
TF: Sì, alla fine ho ascoltato. E avevi ragione. Pete ha una voce che può essere troppo British o country a volte, ma lì ha trovato una chiave diversa.
MM: C’è un aneddoto. Anni fa, a Memphis, suonai per Priscilla Presley. Dopo cena, ci mettemmo a suonare. Lei chiese Love Me di Elvis. Pete era lì e spiegò di essere troppo timido per cantarla. Gli dissi, «Davanti a Priscilla Presley non puoi fare il timido. Canta!». E la sua voce era perfetta, bassa, vellutata. Da lì ho capito che poteva funzionare.
Sembra ci sia stato un equilibrio raro tra voi due, anche nel lavoro in studio.
TF: Sì. In passato, i produttori spesso non mi lasciavano nemmeno entrare nella sala di missaggio. Dicevano, «fai il tuo, poi tocca a noi». Con Mario è stato diverso. Nessun segreto. Abbiamo lavorato insieme ogni centimetro del percorso. Anche quando c’erano divergenze, le affrontavamo.
MM: Io credo ancora che un produttore debba essere come un architetto. Deve vedere la casa vuota e sapere già come sarà arredata. Se si occupa solo dei bottoni, perde la visione. E secondo quella visione, chiami poi l’ingegnere, l’idraulico, il pittore. Ecco, a me piace essere quel tipo di produttore.
TF: Bene. Perfetto. Assolutamente sì. Non è il mio campo, lo ammetto. Devo dire però che Scott Bomar ha fatto un ottimo lavoro. Ha fatto bene. Non ho nulla da dire sulla sua competenza. E, davvero, ha dimostrato sensibilità, alla fine ci ha ascoltato. Certo, voleva essere pagato quando c’era da rifare qualcosa, ma a volte bisogna rifare e si paga. Va bene. È stato sensibile. Aveva la preparazione. Ha fatto il suo. Ci è voluto un po’, ma non mi lamento. Non avevamo fretta. E sono contento che non avessimo fretta. Sono davvero soddisfatto. Ancora una volta, credo che l’unico limite di questo disco sia stata la mia voce — non per come tu l’abbia registrata, né per come tu mi hai prodotto, né per come Scott ha effettuato le registrazioni — ma per ciò che sento dentro, per i miei limiti come cantante.
MM: E parlando di cantanti… e di Pete, di come ci ha sorpreso entrambi…
TF: Continuo a pensare che potrebbe fare un disco magnifico con te come produttore. Senza nulla togliere a quello che ha appena fatto a Roma. E sta per tornare lì per fare un altro disco con lo stesso team. Hanno lavorato molto bene insieme. Non so cosa faranno la prossima volta, ho il sospetto che sarà simile al precedente… ma vedremo. Musicisti bravissimi, tutto perfetto, però penso che lavorare con te sarebbe qualcosa che non troverà altrove. Sarebbe un’esperienza unica, davvero speciale. Non so se tu voglia lavorare con lui. Non so che rapporto abbiate adesso, ma glielo dirò di nuovo, come avevo già fatto in precedenza.
MM: Mi piacerebbe produrre Pete, ma vorrei essere il produttore del processo creativo.
TF: E quel tipo dello studio romano? Come si chiama? Alex?
MM: Ah no, intendi Luca Sapio?
TF: Sì, è anche l’ingegnere del suono lì?
MM: Sì, è sia produttore che ingegnere. Con un’anima soul, diciamo. Ha cercato di portare quella visione anche nel lavoro su Pete.
TF: E sai che ha funzionato. È uscito qualcosa che… penso abbia sorpreso tutti. Quel pezzo, Sarah, ha qualcosa. Ascolti quella produzione e non pensi subito a un pezzo soul. Ti sembra pop, ma ha quelle sfumature soul negli arrangiamenti. È stato un esperimento interessante.
MM: Probabilmente è stato utile anche per Luca. Non conosco i suoi altri dischi, ma da quello che mi dici della sua direzione artistica, credo che lui e Pete abbiano creato qualcosa.
TF: Ed è proprio questo il punto. Fare qualcosa che non ti aspetti, che non faresti altrimenti.
MM: Sarebbe bello se tu e Pete lavoraste insieme a Roma su qualcosa.
TF: Prima o poi accadrà. Comunque questa è la tua intervista. Ora è il vostro momento, parlate pure in italiano con Francesco. Grazie per avermi invitato, spero di non averti stancato troppo.
Prima che tu vada: se non sbaglio la data, il 13 dicembre la città di Napoli compie 2500 anni dalla fondazione. Dovresti andarci, lo devi a te stesso. E Napoli ti ripagherà. Le celebrazioni iniziano a dicembre.
TF: Mmh, davvero interessante. Sto lavorando a delle proiezioni per il mio film, nella sua versione definitiva. È stato completamente rielaborato, con nuova colorazione e mix audio. Le proiezioni sono previste a Londra, Madrid, New York e altri posti. Vedremo. Non credo di poter venire a dicembre. Le proiezioni saranno per lo più a novembre. Dubito che andrò in America per quelle, ma in Europa saranno tra novembre e marzo. Vedremo. In qualche modo ci rivedremo.

Mario, tu sei arrivato negli Stati Uniti quando? Molti di noi, me compreso, sono appassionati a questo tema. Siamo andati negli Stati Uniti per motivi diversi. Alcuni musicisti sono rimasti sul campo, altri sono tornati. Tu invece sei riuscito a trovare uno spazio tuo. Non voglio chiederti come, ma che cosa ti porti via da questa esperienza e da quello che sei riuscito a fare? Lo hai già in parte detto, ma se ti va di distillarlo in poche parole…
MM: Guarda, vivere in America non è un esempio da seguire. Non è… noi italiani abbiamo quest’idea romantica e romanzata dell’America, ma qui te la tolgono del tutto, senza che tu te ne accorga. Perché ti scontri con altre realtà. Vieni qui, pensi di saper fare lo show… Poi vai a Nashville e trovi un ragazzino di sedici anni che ti sbudella l’anima. Poi vai a Clarksdale, per molti versi una specie di città fantasma, e c’è uno con due denti in bocca, una chitarra con tre corde, che fa tre note e ti vengono i brividi. E inizi a capire che i parametri con cui valutiamo sono completamente diversi. Nel mio caso, non so… ho tanta pazienza e tanta curiosità. A volte stare in silenzio ed esplorare ciò che hai intorno è qualcosa che viene apprezzato. Perché magari non te ne accorgi, ma anche gli altri ti osservano. Chi sei, chi non sei, cosa vuoi da questa città. Qui in America, in certe città, la gente gioca in difesa, perché ha un’eredità da proteggere, teme che gli venga rubata o portata via. Soprattutto dagli europei, quindi c’è sempre questo senso di… quello che mi ha aiutato è stato, prima di tutto, l’essere stato sponsorizzato da Tav. Non è facile avere un artista che mette da parte il proprio ego artistico per far emergere quello di un altro. Non è per niente facile. Non è che qui non abbiamo avuto problemi, gente che ti diceva: «Ecco, sono venuti a fare Elvis». C’è quel tipo di competizione anche lì, sono gli americani che parlano spesso così. Impari poco a poco, ma è proprio quel poco a poco che, nel tempo, entra dentro le note. Perché la musica è una forma d’arte, è lo specchio di ciò che vive una società, di un momento storico. Quindi ci sono cose che entrano nella tua idea di suono, senza che tu nemmeno te ne accorga. Come quando inizi a parlare in inglese: all’inizio hai paura, ti vergogni. Poi, a un certo punto, ti ci ritrovi. Ti siedi a cena con la gente e parli. E non te ne rendi nemmeno conto. Nel 2016, quando sono arrivato qui, sono dovuto andare per la prima volta dal dentista… la quotidianità ti insegna. C’è il meccanico che ti dice che oggi il fusello non va… E lo dice in inglese, capito? Sono tutte quelle piccole cose. E poi, il Sud non è New York, dove c’è il mondo, c’è traffico, c’è Europa, c’è Italia. Il memphisiano che non è mai uscito da Memphis, se gli parli in inglese scolastico, non ti capisce. È come il tipo dell’entroterra ennese che non è mai uscito da Enna e magari da generazioni parla in siciliano, punto. E tu gli parli in italiano pulito… vietato, non ti capisce. Qui è uguale. Solo che noi abbiamo tremila anni di storia. Loro ne hanno cinquecento. Queste cose le realizzi concettualmente, ma le impari per davvero solo dopo anni che ci vivi dentro. Bisogna vedere quanto sei disposto a sacrificare te stesso, il tuo mondo, il tuo passato, per vivere questa cosa. Quindi: quanto amore hai per tutto questo? A me la musica ha davvero cambiato la vita. In Italia ero cancelliere. Lavoravo in tribunale da quasi vent’anni.
Non lo sapevo.
MM: Ho lasciato la cancelleria dopo aver incontrato Tav. Quando Tav mi portò in America, il primo tour fu in Inghilterra. Il mio cervello fece così: boom. Poi tornai a Roma e dissi: non posso più fare questo lavoro. Presi la licenza e la misi da parte. Facendo felice chi voleva entrare in quel ruolo. Avevo il ruolo perfetto: mio padre era avvocato, mia madre insegnante, le mie sorelle insegnanti. A casa mia si ascoltava molta musica. Mia sorella era pianista classica. Se sei un pianista classico o un musicista classico, è un altro discorso. Ti mettono su un altro livello. Ma un chitarrista rock and roll è un hobbista. Non può essere altro. Io invece avevo questa urgenza. Non voglio sembrare uno che ti dà lezioni, perché certe cose vanno fatte. Non si può vivere alla giornata. E quando sei all’estero, la gente ti percepisce per quello che esprimi, anche linguisticamente. Ti esprimi a 360 gradi: dal tuo livello culturale a quello emotivo. Quando arrivi qui e parli in modo basico, la gente ti percepisce in modo basico e ti tratta di conseguenza. Non perché sei stupido, ma perché ti esprimi come uno che non è andato a scuola. Comunque, dal primo ottobre ci trasferiamo a Nashville. Ho deciso di aprire un nuovo capitolo lì.
Tua moglie è di Memphis?
MM:Sì, ma abbiamo deciso entrambi di cambiare aria e penso non potrà che farci del bene.
Dovreste venirci a trovare in Canada. Casa mia non è Graceland ma ci si può arrangiare.
MM: Guarda, ora ci stiamo trasferendo ma sicuramente terrò il tuo invito in considerazione. In Canada non ci siamo mai stati. Grazie, Francesco.
Quando ho incontrato Tav e Mario, pensavo di fare una chiacchierata di mezz’ora. In realtà, abbiamo parlato per ore. Ne è venuta fuori una lunga conversazione sul tempo, sull’identità, sul peso della voce e sulla leggerezza necessaria per cantare il mondo. «La musica», mi ha detto Mario, «è un gioco serio. Se non ci metti amore, non funziona. E se ci metti amore, allora tutto cambia». In fondo, è questa la lezione che entrambi ci lasciano: l’arte è un rituale. E se fatta bene, può ancora evocare qualcosa di vivo.