La prima volta li vidi al Beacon Theatre di New York, nell’ottobre 2011. Da allora, Gillian Welch e David Rawlings hanno continuato a vivere con ritmo bradicardico: dischi centellinati, tour sporadici negli Stati Uniti, apparizioni quasi inesistenti da questa parte dell’Oceano. Quando hanno annunciato due serate londinesi — le prime dal lontano 2011 — l’occasione è sembrata subito di quelle da non farsi sfuggire.
Il palco che li accoglie appartiene al glorioso London Palladium: eretto nel 1910, il teatro ha una tradizione di spettacolo a trecentosessanta gradi, dal varietà al cinema e alla sala da concerti (ci suonarono Duke Ellington e Louis Armstrong), fino ad accogliere persino una pista di pattinaggio su ghiaccio. Negli anni Cinquanta e Sessanta ospitò il leggendario programma televisivo Sunday Night at London Palladium, dove si esibirono Beatles e Stones alle prime armi. In quel luogo, Johnny Cash registrò nel 1968 Strawberry Cake (live rimasto inedito fino al 1976), mentre Marvin Gaye scelse proprio quel palco per il suo Live at the London Palladium del 1977. E sempre lì, solo due giorni dopo la sua ultima esibizione, Mama Cass Elliott fu trovata morta nel suo appartamento londinese. Un teatro che trasuda storia della musica. Non poteva esserci cornice migliore per il ritorno del duo Welch-Rawlings in Inghilterra.
E infatti, entrambe le date sono andate sold out in pochi minuti. Il setting del palco non è cambiato da quello che ricordavo: un tappeto su cui si appoggiano i due microfoni, i leggii e un tavolinetto che serve a Dave per piazzare chitarre e tirare fuori dai cassetti capotasto e armonica. A differenza di quindici anni fa, la scaletta combina (oltre a qualche cover) brani della Welch con quelli di Rawlings, inclusi ovviamente quelli scritti a quattro mani per il recente Woodland. La serata parte subito col botto con una versione trascinante di I Want To Sing That Rock and Roll, da Time (The Revelator), poi i due invitano sul palco Paul Kowert — il contrabbassista che li ha accompagnati durante la tournée dell’ultimo disco — e la formazione diventa a tre per buona parte dello show.
Noi del pubblico diventiamo passeggeri di una capsula del tempo che viaggia all’indietro, dove la musica sprigiona tutti gli aromi della tradizione americana: il folk degli Appalachi, il country, il blues, il rock’n’roll. Il duo li rilegge con amore e maestria, accompagnandoci in un viaggio che guarda al passato per cercare di dare un senso alla follia circostante — negli Stati Uniti come qui in Europa. La democrazia calpestata, un sistema di valori ridotto in frantumi, l’assenza di strutture a tutela dei più deboli, l’odio che inspiegabilmente divide persone per credo religioso, colore della pelle, tradizioni e culture. L’esibizione si snoda attraverso due set, divisi da un breve intervallo, in cui il terzetto riprende buona parte del materiale dell’ultimo album. Notevole la lettura di Empty Trainload of Sky, percorsa da umori jazz l’esecuzione di What We Had, da brividi è la versione di North Country.
Come sempre, la riservatezza della coppia si traduce in un’interazione limitata col pubblico: sono musica e testi a dover stare al centro della scena, a doverci parlare. Eppure, proprio all’inizio del concerto, di fronte alla tradizionale compostezza del pubblico inglese, la Welch si lascia sfuggire, «non abbiate paura di fischiare, urlare, battere le mani durante un pezzo. Comportatevi come se fossimo una rock band e non un duo folk». E la cosa funziona, perché l’atmosfera si riscalda e la partecipazione della gente si fa rumorosa, tanto che dopo poco Gillian sbotta in un entusiasta «you’re fucking amazing!», riconoscimento che suona come un confronto lusinghiero con il pubblico, evidentemente più composto, della sera precedente.
Attraverso le storie raccontate in brani come Cumberland Gap, Wayside/Back in Time, Hard Times o The Way It Goes, scorre dinnanzi a noi una galleria interminabile di anime dimenticate dagli uomini e da Dio: ubriaconi, balordi, assassini, prostitute, barboni. Gente che ha perso tutto, allo sbando. La Welch guarda a quei fallimenti, a quelle sconfitte, a quelle fragilità con uno sguardo tenero — uno sguardo che cerca di capire anziché giudicare, di spiegare invece che condannare. Sei bis. Perché la gente non li vuol lasciar andare, e forse anche loro vogliono assaporare fino all’ultimo respiro la magia della serata.
L’ultima parte si apre con Make Me a Pallet on the Floor, brano che la coppia ha appreso da Doc Watson durante le esibizioni a supporto del musicista della North Carolina. Poi, una versione trascinante di Look at Miss Ohio, con il pubblico che si unisce in coro sul ritornello I wanna do it right, but not right now. Ancora, una rilettura di I’ll Fly Away dalla colonna sonora di O Brother, Where Art Thou?. Splendido l’omaggio a Grace Slick con White Rabbit. Si chiude con Long Black Veil eseguita a cappella, senza microfoni: il duo si avvicina alla gente, quasi a volerla coinvolgere in un rito sacrale.
Se dovessi scegliere un brano a rappresentare la forza emotiva dell’evento, non avrei dubbi: Revelator, in una versione dilatata, avvolgente, con un lunghissimo assolo di Dave che tocca tutte le corde delle sue enormi capacità chitarristiche — ora tenere e sognanti, ora tese e tonanti. Un brano da pelle d’oca. Serata memorabile!