Speciali

I (don’t) want to be black – In ricordo di James Chance 1953 -2024

È morto all’età di 71 anni il rivoluzionario sassofonista che nella seconda metà dei ’70, con una supernova di avant-funk e tarantolato free-jazz, cambiò per sempre il suono della città e delle sue viscere. Il nostro ricordo.

Nato in una famiglia ebraica di Milwaukee, Wisconsin, il cui cognome era Siegfried, James Chance si faceva a volte chiamare James White e alle sue formazioni ha cambiato più nomi di quanti ne abbia mai protocollati un prefetto dell’anagrafe. Aveva alle spalle studi classici, in ambito umanistico, e avendo frequentato il conservatorio si può dire possedesse una conoscenza della musica e delle sue regole di rigore accademico, ma ha passato la vita a destrutturarla, smembrarla e farla a pezzi in una cacofonia di strilli, acuti e versi gutturali passata alla storia, benché non fosse immediatamente digeribile (anzi), per forza espressiva e riformatrice.

L’anticonformismo più fiammeggiante l’aveva conquistato sin dai tempi dell’università, quando con un gruppo profondamente influenzato sia dal declino industriale della cittadina di provenienza (nel dopoguerra, il settore manifatturiero di Milwaukee aveva visto dissolversi più di 42’000 posti di lavoro, da cui un inevitabile decadimento di quartieri, edifici, paghe, età media dei residenti) sia dal rumore bianco del rock meno edulcorato in circolazione, aveva dedicato il proprio sassofono alla rilettura di brani da Stooges e Velvet Underground. Purtroppo, i Death — questa la rassicurante ragione sociale della formazione — non durarono a lungo, e alla morte del cantante Chance decise di mollare il Wisconsin per trasferirsi a New York, là dove sembrava che tutto stesse accadendo.

Sebbene il nostro si fosse spostato verso l’Atlantico convinto di trovarvi il santuario dell’amato free-jazz di Albert Ayler e John Coltrane, non tardò a prevalere, in lui, una cocente delusione per la natura conservatrice della scena jazz newyorchese, percepita come ipocrita e moralista. La svolta arrivò quando, d’un tratto, Chance si ritrovò a condividere un sudicio flat con Lydia Lunch e capì al volo di aver trovato, se non un’anima gemella, una consorella in armi e provocazioni. I due misero in piedi i seminali Teenage Jesus & The Jerks, ma il loro sodalizio durò poco. All’uscita del primo e indimenticabile 7”, prodotto da Robert Quine, contente l’agghiacciante filastrocca anti-musicale di Orphans e pubblicato nel 1978 dalla Migraine di Charles Ball (letterato della Pennsylvania con un debole per Roland Barthes e Jacques Lacan), Chance era già fuori dai giochi malgrado il barrito del suo sax — primitivo, irregolare, nevrastenico — furoreggiasse in spirito su tutta l’operazione.

Fresco di qualche impegnativa lezione con David Murray, luminare del sax nonché allievo di Ornette Coleman, Chance aveva nel frattempo dato vita ai Contortions, un delirante e disarmonico quintetto dove l’incesto tra iterazioni funk, terremoti punk e ululati free veniva espettorato, tra gli altri, dalla slide assordante di Pat Place e dall’organetto demente, scassato e sempre fuori posto di Adele Bertei. Nell’album antologico No New York (1978), assemblato da Brian Eno come testimonianza definitiva sull’originalità di quella no-wave intenta a demistificare punk e new-wave nella paranoia nichilista di un suono ispirato ai princìpi degli artisti autodidatti Jean Dubuffet e William Kurelek, la portata, la pienezza e il volume di fuoco dei brani firmati dai Contortions, in mezzo a quelli dei colleghi Mars, D.N.A. e TJ&TJ, non era forse semplice da cogliere appieno.

Ma Buy (1979), uscito per la franco-britannica ZE di Michael Zilkha e Michel Esteban, fu un’esplosione nucleare mai sentita prima e raramente eguagliata in seguito. Aggressivo, invasato, totalmente distorto e sfigurato, il suono del disco, puntellato dagli ululati raccapriccianti del sax di Chance, metteva insieme fraseggi minimalisti, da eruzione degli oligofrenici, e sconquassi all’insegna di un funky slabbrato e deforme, spastico nelle movenze e, a suo modo, quasi «discotecaro», ma da pista da ballo per mutilati e neurodanneggiati. I rantoli adenoidali di I Don’t Want To Be Happy, il belluino schiamazzare di Throw Me Away, il rapinoso rigurgito punk-funk di Contort Yourself, la furia cieca di una Roving Eyes degna del più tumultuoso Archie Shepp e il James Brown stilizzato, accoltellato ai fianchi e mentalmente deragliato di Design To Kill mettevano in scena il collasso di una metropoli in cui lamiere, calcestruzzi, angoli bui e abbandonati, caseggiati spogli, strade invase dalla sporcizia, alienazione e sospetto avevano finito per inghiottire ogni forma di evoluzione e all’arte non restava altro se non l’espediente di tornare a esprimersi in forme non-mediate e primordiali.

L’anima malata della giungla d’asfalto risuonava, in James Chance & The Contortions, con la stessa disperata chiarezza con la quale era emersa nei Suicide di Alan Vega e Martin Rev, nelle loro cattedrali elettroniche brucianti di neon, fantasmi, violenza e rock & roll, nelle loro messe funebri per la società dello spettacolo e delle fabbriche, nella loro propensione a non fuggire nessun elemento di verità e crudezza. Nemmeno quello dello scontro fisico con il pubblico. E infatti, se Vega chiudeva le sue esibizioni in un bagno di sangue, perché il punto non era «intrattenere» gli spettatori bensì sfidarli e incalzarli con la carica selvaggia del primo Elvis Presley, altrettanto James Chance andava alla ricerca dell’alterco, al punto da insultare la platea per provocarne l’indispettita reazione.

Nella ristampa di Buy targata 2004 c’è una Jailhouse Rock, tratta da un concerto al CBGB’s del 1978, introdotta come un cadeau «per tutti gli idioti che vivono nel passato» e costellata di tali insolenze e contumelie da far pensare che, non fosse stato per l’efferatezza trascinante del brano, qualcuno sarebbe potuto salire sul palco e prendere Chance per dargliele di santa ragione.

Le cose si fecero ancor più chiare nel successivo, ma fatto uscire pressoché in contemporanea al debutto dei Contortions, Off White (1979), per il quale Chance avrebbe assunto l’identità di James White (con ovvio rovesciamento delle generalità dell’idolo James Brown) e, istruiti a dovere i neonati Blacks, avrebbe messo in scena un’altra tempesta di spigoloso e anarchico funky talvolta storpiato da devianti trame free-jazz. Questa volta Chance/White sembrava divertirsi, sin dall’iniziale e scombussolante remix dell’ormai proverbiale Contort Yourself, a rileggere la cosiddetta exotica e le musiche da film con l’allucinata, lunatica truculenza artistoide con cui Captain Beefheart aveva anni prima sventrato il blues, fino a raggiungere un delirante stato di estasi in cui il furore del ritmo e la sua negazione coincidevano. L’esorcismo caraibico di (Tropical) Heat Wave, il sax licantropo di Bleached Black, la cavalcata valpurgica di White Savages e gli isterici scossoni della lunga Off Black sembravano in effetti invitare al ballo, ma con una violenza parossistica tale da raffreddare gli animi anziché stimolarli.

Il banco veniva altresì fatto saltare dalla spettacolosa Stained Sheets, in pratica la radiocronaca della telefonata di una donna, che per tutta la durata del brano altro non faceva se non ansimare e mugolare (guaiti «interpretati» da Stella Rico, alias Lydia Lunch), al suo ex-amante, con quest’ultimo occupato a riesumare vecchie storiacce di droga e nuove proposte subliminalmente oscene. L’atmosfera morbosa del pezzo, modellato sulle musiche, i dialoghi e i sottintesi dei gangster-movies fumosi appartenuti alla Hollywood del bianco e nero, diceva non solo della grande passione nutrita da Chance verso i noir dei ’50 (nel 2010 avrebbe caricato online un lungo articolo sui suoi 10 titoli prediletti all’interno del genere, compiendo scelte da vero cinefilo), ma di quanto fosse intellettuale — un esercizio concettuale rabbioso, sfidante, provocatorio — l’operazione da lui portata avanti con Blacks e Contortions.

Alla base di tutto c’erano il free-jazz, di cui Chance si serviva per amplificare la libertà ritmico-armonica delle sue composizioni, e il funk pestato e trance di James Brown, oltremodo ammirato per la capacità di tradurre i poliritmi africani in elementari, martellanti micro-sinfonie dalle cadenze tormentose. Chance, con il gesto più punk del decennio (assieme a quello dei Suicide prima e dei Cramps dopo), adoperò questi riferimenti «danzabili» per triturarli in un turbine sonoro dove ogni particella veniva eseguita come se si trattasse dei riff sexy e sciamanici di Bo Diddley. Rock and roll allo stato puro, in un certo senso, contenente però il suo certificato di morte, perché il suono degli ottoni non veniva più dal soffio, dai polmoni e dal diaframma: sembrava invece provenire, aguzzo e puntuto com’era, direttamente dalla cartilagine, dalle articolazioni sul punto di spezzarsi, da una cassa toracica al limite del collasso per frantumazione interna. La «ballabilità», non solo suggerita bensì invocata, c’era, sì, ma si trattava di una ghignante danza degli scheletri alla maniera dei vecchi cartoni animati della Walt Disney, con Chance — ciuffo rockabilly, labbra sporgenti, naso schiacciato e fisionomia contorta — nel ruolo dell’underdog iracondo e manesco alla Paperino.

Così come l’antropofagia blues di Beefheart aveva tramutato il genere nella sua pura e per paradosso quasi celestiale astrazione, così Chance sbranava con gusto sardonico ogni residuo lirismo di jazz e funk per trarne un abnorme blob dadaista esacerbato e assillante. L’esibita sofferenza psichica e l’assoluto disprezzo per le regole del pentagramma erano del resto quelle comuni a tutti i bohémien artistoidi e squattrinati della New York di allora, tossici, registi indipendenti, graffitari, operai stritolati dal lavoro, autisti, inservienti di tavole calde e bodegas, spacciatori, alcolizzati e varie creature della notte cui Chance faceva volentieri da colonna sonora. La New York della blank generation e dei cortometraggi di Amos Poe, della TV sperimentale e dei 16mm punk di tanti aspiranti cineasti in gara con la cronica assenza di mezzi e risorse: Chance apparve nello squinternato dramma in costume Rome ’78 (1978) di James Nares, nel corto Alien Portrait (1979) di Michael McClard (riprese in slo-mo di un concerto al CBGB’s dei TJ&TJ) e in Downtown 81, il documentario del fotografo svizzero Edo Bertoglio — amico di Andy Warhol, dei Lounge Lizards, di Debbie Harry — sul diciannovenne Jean-Michel Basquiat, girato all’inizio degli ’80 ancorché distribuito solo vent’anni più tardi.

Soprattutto, sul set del primo conobbe la stilista di origine taiwanese Anya Phillips, della quale s’innamorò, ricambiato. La donna diventò la sua musa e il suo impresario, convincendolo a musicare, tramite un memorabile 12” del ’79 realizzato con Arto Lindsay, il film Grutzi Elvis (1978), girato a Monaco, in Germania, dall’esperto d’arte Diego Cortez. Nello stesso anno, tuttavia, Phillips venne diagnosticata con una rara forma di tumore al cervello che l’avrebbe portata, nonostante gli sforzi di Chance e degli amici Kid Creole, Chris Spedding, Chic etc., a lasciare questa terra, appena ventiseienne, nel giugno del 1981. Scosso e disorientato dagli eventi, deluso dallo scioglimento burrascoso dei Contortions (o dei Blacks, stessa cosa), Chance se ne andò a vivere per qualche anno nella Parigi in cui avevano già trovato accoglienza esuli illustri come Elliott Murphy e Willy DeVille.

In realtà, il nostro frequentava la capitale francese già da qualche stagione, e prova ne fu lo schizofrenico, tellurico Live Aux Bain Douches (1980), uno sclerotico concentrato di incandescente avanguardia nel quale figuravano non solo due riletture devastatrici dal repertorio di James Brown (I Got You (I Feel Good) e King Heroin, quest’ultima a dir poco grandguignolesca), la grottesca marcia voodoo di I Danced With A Zombie e il vandalismo tra punk e funk di Put Me Back In My Cage, ma soprattutto l’energia ipnotica e minacciosa di una Don’t Stop Till You Get Enough dove la negritudine slavata di Michael Jackson (ai tempi da pochissimo avviato alla carriera solista) assumeva le sembianze di una mortifera cantilena per automi assetati di sangue. Il successivo Sax Maniac (1982), dedicato a Phillips, uscito per la Animal di Chris Stein (chitarrista dei Blondie), attraversato dai surreali cori delle Discolitas e piombato di ottoni e strumenti a fiato come mai in precedenza (tra essi il trombone di Joseph Bowie, poi nei Defunkt), contrassegnò un’altra vetta del costante stadio di ebbrezza artistica attraversato da Chance (stavolta White). Nonostante, infatti, la gozzovigliante orchestra alle sue spalle, il suo artefice rinunciava deliberatamente al ruolo di direttore per confezionarvi una simile cattedrale di muggiti e fragori, di esplosioni e starnazzamenti, da mandare al tappeto anche l’ascoltatore più smaliziato, qui inesorabilmente investito dai treni in corsa della title-track, di Irresistible Impulse (depravazioni funky a grappoli), di The Twitch (nitroglicerina free-jazz), di una That Old Black Magic (sì, proprio l’antica ballata di Harold Arlen e Johnny Mercer) rivoltata come un calzino.

Non meno dirompente, James White’s Flaming Demonics (1983) fu d’altro canto l’opera più rock e tradizionalmente R&B (per così dire) del suo autore, sempre sconvolgente per grinta e spirito dissacrante sebbene questa volta desideroso di cimentarsi in scoppiettanti rivisitazioni di un vecchio tango degli anni ’30 (Boulevard Of Broken Dreams, seviziata e sfigurata a dir poco), scudisciate alla George Clinton (The Natives Are Restless), improbabili e interminabili esercizi di disco-jazz speziata dalla magia nera (The Devil Made Me Do It), brutalizzazioni di Duke Ellington unite a un nuovo e autografo episodio di feroce intransigenza funk (nell’inenarrabile medley tra Caravan, It Don’t Mean A Thing e Melt Yourself Down). Malgrado la consueta profusione di vitalità e aggressività, i giochi erano già fatti, e il colossale flop di entrambi questi album parve decretare l’estraneità di Chance a un decennio interessato a suoni più convenzionali e meno irriverenti, in particolar modo più «trattati», candeggiati e tendenti a un côté elettronico tanto caratteristico (dell’epoca) quanto generico.

Ciò nonostante, qualche anno dopo una cordata di appassionati giapponesi si prese l’onere di pagare due giorni di registrazioni agli Unicorn Studios di Los Angeles e da lì nacque l’ancora emozionante Melt Yourself Down (1986), pubblicato dalla Selfish Records — etichetta nipponica in genere consacrata all’HC-punk del suo paese — per il solo mercato del sol levante e ristampato per quello americano non prima del 2021. All’interno di questa opera scura, rattristata, figlia del buio anziché della luce, gli originali di Chance non erano da strapparsi i capelli (anche se le caricature di un messianico sabba tropicale contenute nella chilometrica Hell On Earth rivaleggiavano in frenesia con i vecchi classici); lo erano, però, le due celebrazioni di James Brown, omaggiato con una demoniaca Super Bad, prima, e poi con una definitiva Cold Sweat da dieci e rotti minuti di selvaggio magnetismo freak-funk. Da lì in avanti, fatta eccezione per qualche sporadica comparsata nei lavori dell’amica Debbie Harry, di James Chance si sarebbero perse le tracce fino al (mediocre) rientro in pista di Molotov Cocktail Lounge (1996), pallido riflesso dei furori giovanili opacizzato da un diluvio di elettronica, esecuzioni col freno a mano tirato, lungaggini gratuite e una Treat Her Right (Roy Head) dalla quale erano usciti con più dignità sia Rory Gallagher sia Johnny Thunders, sia i LeRoi Brothers sia George Thorogood.

Il DVD con documentario abbinato Chance Of A Lifetime (2005), catturato dal vivo al Double Door di Chicago, regalava qualche brivido nel vedere l’interessato per la prima volta in solitudine, e impegnato a darci dentro come un invasato nonostante le evidenti fragilità e vulnerabilità, ma già il seguente The Fix Is In (2010), pubblicato in teoria solo in Italia ma in realtà inspiegabile «condensato» del più lungo Get Down And Dirty!, uscito in Giappone quattro anni prima, confermava l’impressione di un musicista forse non del tutto prosciugato, in termini di ispirazione, benché ormai regolarmente alle prese con polverose sonorità da film-noir (per quanto pittoresche) a incontrovertibile sostituzione dei passati e sismici materiali.

Un po’ meglio andava nel sottovalutato Incorrigible! (2012), inciso a Rennes, nel nordovest della Francia, con la formazione «gallica» (Les Contortions, appunto) di cui Chance si serviva allora, e di nuovo molto lontano dalle maratone claustrofobiche di fine ’70 ma con all’attivo una discreta efficienza nell’alternare jazz bandistico e turgori funk, nonché con una magnifica versione, all’insegna di un soul liquefatto e invernale, della Home Is Where The Hatred Is di Gil Scott-Heron (piuttosto insulso, per contro, il rifacimento della sigla della serie televisiva Oz).

All’arrivo di The Flesh Is Weak (2016) si sprecarono i paragoni, soprattutto da parte di una critica online cronicamente lontana da qualsivoglia idea di contestualizzazione, con i Talking Heads degli esordi, con l’afrobeat di Fela Kuti, con il dub-funk dei britannici Pop Group, con la disco «mutante» di certi Material e Was (Not Was). Se però, storicamente, Chance aveva poco a che fare con i primi (se mai, con il Miles Davis della svolta elettrica) e nulla di nulla con il secondo, mentre tutti gli altri li aveva anticipati quando non creati, ascoltarlo per l’ennesima volta alle prese con i soliti brani (conditi da un’imperdonabile perifrasi della That’s Life di Frank Sinatra) suscitava solo rimpianto per il sanguigno musicista di 35 anni prima, in apparenza surrogato (male) da un suo anemico clone.

Risalente al 2019 l’ultima esibizione dal vivo, un James Chance sempre più provato nel fisico (non ha però mai voluto rivelare di quale patologia soffrisse) si affidò alle cure del fratello David e sparì, prima dalla circolazione e infine, spentosi in un policlinico di Harlem lo scorso 18 giugno, da questo mondo. Per tutti, l’ulteriore e ancora una volta dolorosissimo tassello d’una lunga teoria di decessi che si sta portando via tutti i nostri beniamini, anche quelli più esclusivi e appartati. Per chi non ha dimenticato e non può dimenticare il suo torrido, corrosivo sassofono, la conferma di come la sua musica indimenticabile sopravviverà al suo creatore anche in assenza di eredi artistici, pronta a restare con noi quale esempio irripetibile dei suoni, dei sogni, della pazzia e della poesia un tempo brulicanti negli intestini in cemento delle grandi metropoli.

Questo mese

The Junior Bonner Playlist

Backstreets Of Buscadero

Facebook

TOM PETTY

ADMR Rock Web Radio

Rock Party Show Radio

The Blues Podcast