
A dicembre un articolo del Guardian titolava: «fate tutto il possibile per procurarvi un biglietto». Detto, fatto: due biglietti per le tre serate di apertura del breve tour europeo dell’artista di Detroit. La location prescelta è Parigi che, per l’occasione, ospita a pochi passi dalla venue il pop-up shop della Third Man Records, minuscolo paradiso con t shirt, dischi e gadget vari dell’etichetta fondata da White.
Il Trianon è una meraviglia di marmi e specchi di fine 800, da tempo dedicato anche ad eventi di questo tipo. Accessi veloci, acustica impeccabile, capienza sufficientemente raccolta per accogliere quattro ceffi che aggrediscono il palco con una breve e devastante jam di apertura che prepara da subito il pubblico al menu della serata, e cioè quella che è attualmente la più credibile e potente declinazione del rock’n’roll, che nelle mani di White è figlio del blues e padre del punk.
Neanche un secondo di pausa e ci si tuffa in Old Scratch Blues e That’s How I’m Feeling (entrambe dall’ultimo, splendido, tellurico No Name). Si prosegue con Black Math, inframezzata da una strofa di The Passenger di Iggy, a testimonianza di un legame indissolubile con la città di origine (ben due i brani degli Stooges nella selezione pre concerto e sicuramente non è un caso).
Vale la pena citare una versione di Outlaw Blues di Bob Dylan, che ne mostra invece la versatilità e l’assoluta padronanza anche su quel versante, o i momenti nei quali il suono si fa più scuro e cupo, tipo durante I Cut Like A Buffalo dei Dead Weather (nella seconda serata) o, ancora, quando riprende
Dead Leaves And The Dirty Ground che rimane, per chi scrive, l’apice della prima: la desolazione che era dei soli Jack e Meg, si arricchisce qui di una carica altrimenti sconosciuta.
La velocità con la quale White passa da una celebrazione della sua variegata carriera attraverso White Stripes, Raconteurs e Dead Weather – con una band che sa esattamente come dare nuova vita a quei brani – raccontano di un concerto dove ogni mossa sembra sottolineare anzitutto l’inossidabile passione per un genere che, nonostante abbia da tempo visto affievolirsi la sua centralità nell’ambito della popular music, riesce tuttavia a trovare, in esibizioni come questa, un potente promemoria della sua forza primordiale.
Concerto che si chiude con il prevedibile trionfo che accompagna Seven Nation Army (la canzone che canticchia anche chi non sa chi sia White) e con la certezza che il pubblico presente – anche quello più smaliziato e avanti con gli anni – difficilmente dimenticherà questo tour de force di energia grezza e ininterrotta, carisma, virtuosismo mai fine a se stesso e devozione alle radici più ruspanti ed autentiche di quello che qualcuno ancora si affanna a chiamare rock’n’roll.