
JESSE ED DAVIS
Tomorrow May Not Be Your Day: The Unissued Atco Recordings 1970-1971
Real Gone
***½
Inaspettata, bella, costosa e di difficile reperibilità. Sono i primi aggettivi che vengono in mente al cospetto di questa doppia raccolta dedicata al chitarrista dell’Oklahoma, prodotta dal figliastro Billy Davis Noriega in occasione di uno degli ultimi Black Friday. A dispetto della poca considerazione a lui riservata dopo il 1988 della scomparsa, alla causa del rock Jesse Ed Davis ha dato molto, se vogliamo anche la vita: il suo essere divenuto un junkie irrecuperabile, infatti, è legato a doppio filo alle frequentazioni non del tutto raccomandabili nel mondo delle rockstar. Davis è stato un chitarrista fenomenale e un produttore dall’orecchio sopraffino, due professioni che lo hanno portato a lavorare con la crema della pasticceria musicale, dagli esordi al fianco di Taj Mahal (qui presente in qualche coro) alla comune della Plantation House di L.A., dove la sua strada ha incrociato quelle di Leon Russell, J.J. Cale, Rita Coolidge e altri, fino alle session per Gene Clark, Jackson Browne (è suo l’assolo in Doctor My Eyes), John Trudell, Faces (di cui ha fatto parte per un breve periodo), passando per Bob Dylan, Rolling Stones e Beatles. In tutto questo, Davis trovò il tempo di registrare pochi dischi solisti – imprescindibile il primo ¡Jesse Davis!, molto bello il secondo Ululu.
Questo Tomorrow May Not Be Your Day: The Unissued Atco Recordings 1970-1971 – raccolta di inediti, jam e versioni alternative – ci restituisce quel suono, selvaggio e morbido al tempo stesso, che è stato il marchio di fabbrica di questo indiano d’America. Si pesca dalle session di entrambi i dischi citati, in origine su ATCO nel 1970 e 1972: si comincia con l’ottima title-track, outtake delle session losangeline dell’esordio. È una composizione energica, con bei cori e bell’amalgama strumentale costruito sulla chitarra (spesso slide) di Davis, sull’organo e su una sezione ritmica in cui spiccano i nomi dei batteristi Gary Mallaber, Jim Keltner e Alan White. Crazy Love è una versione più gentile rispetto a quella apparsa sul primo disco: Davis testimonia il suo amore per il cowboy di Belfast, ribadito sulla quarta facciata da un’inedita, solida versione strumentale di Caravan. Kansas City è strumentale, omaggio alle proprie origini blues; Rock’n’Roll Gypsies, brano già inciso in altra forma, reca la firma di Roger Tillison, compatriota di cui Davis produsse il debutto; Track Of My Tears è una personale e inedita rivisitazione del classico Motown.
Every Night Is Saturday Night stave sempre su ¡Jesse Davis!, ma qui vede il titolare a duetto con Eric Clapton in una lunga jam. Dalle session con Manolenta provengono anche due delle versioni alternative della signature song di Davis, Washita Love Child, ispirata dalla sua infanzia nella riserva dei nativi: le quattro versioni in questione – tre strumentali, di cui una lenta, e una cantata – sono tutte da urlo, ovviamente con una preferenza per quelle in cui Clapton e la sua sei corde fanno pendant con quella di Jesse Ed. Love Minus Zero / No Limits è una jam dylaniana, anche se il titolo fa sorgere qualche dubbio, visto che la struttura ricorda piuttosto Leopard Skin Pill-Box Hat. Altre due jam strumentali – Slinky Jam e Qualified – provengono rispettivamente dalle session del ‘71 al Record Plant e ai Criteria Studios, e danno modo di apprezzare il gran mestiere dei turnisti coinvolti (Ben Sidran, Dr. John, Bill Rich, Steve Thompson, Leon Russell e Larry Knetchel).
Da segnalare Ain’t No Beatle, Ain’t No Rolling Stone, inedito strumentale che probabilmente nessuno ha mai inciso a dovere, ma girava negli studi di Los Angeles nel ’70/’71 (ce n’è un’inascoltabile versione di Gram Parsons da qualche parte): qui giganteggia grazie alla slide di Davis, il quale in seguito trasformò il tema in un altro brano (Red Dirt Boogie, Brother, sul secondo disco). L’operazione si chiude con due omaggi a Patti, la donna della vita di Davis, madre del suo figliastro e protagonista qui del lungo strumentale Pat’s Song e di Ululu (in versione senza voce).