
Sarò sincero, la sera del 27 febbraio programmo di andare all’Arci Bellezza di Milano quasi unicamente perché, semplicemente, il locale ha attualmente la programmazione più varia, ricca, di sostanza in città. Insomma, mi fido di loro e, qualche volta, ci sta l’andare (quasi) a scatola chiusa. Il tutto per dire che dei Julie, giovanissima band losangelina composta da tre ventenni o giù di lì, sapevo poco o nulla, nonostante un esordio griffato Atlantic, My Anti-Aircraft Friend, e un decisamente lusinghiero, ma di manica larghissima, 8.1 su Pitchfork.
Mi rendo conto di trovarmi di fronte a qualcosa che segue percorsi del tutto paralleli ai miei abituali quando, giunto sul posto con largo anticipo, così da bermi con calma una birretta, mi trovo davanti un gran manipolo di adolescenti e ragazzini, già in coda davanti all’ingresso, in attesa dell’apertura porte. Ora, abituato ad andare a concerti quasi sempre frequentati da matusa come me, un certo moto d’affetto mi viene, perché mi ha ricorda i tempi in cui, tanti anni fa, facevo le stesse cose, chessò, per i Sonic Youth.
La band di Thurston Moore e Kim Gordon non l’ho citata a caso, perché uno dei riferimenti più chiari della musica dei Julie sono proprio loro. L’altro, ai limiti del plagio, i My Bloody Valentine. Ora che si sta arrivando al revival di quello che ascoltavo io quand’ero nella «fase della scoperta» – il grunge, l’indie-rock, il rock alternativo in genere degli anni 90 – mi rendo conto quanto sia facile scivolare nel cinismo e bollare il tutto come una roba banale, scontata, del tutto ovviabile. Roba per ragazzini. My Anti-Aircraft Friend, in realtà, non è un brutto disco: certo, è imparagonabile agli originali, si sente che quel suono lo vive più come uno stile da riprodurre provando a farlo proprio, che non come autentica spinta creativa, ma alla fine la cosa non è un grandissimo problema. Il cinismo è una brutta cosa e in musica soprattutto, per me, non ha senso; l’importante, nel mantenere un approccio critico alle cosa, è tenere i piedi per terra, essere realisti e non lanciarsi in voli pindarici senza senso (l’8.1 di cui sopra, ad esempio).
Diverso il discorso per i ragazzi che erano qui stasera, però: per loro è qualcosa di puramente viscerale, di molto più intenso, rappresenta un qui e ora che, a confronto, Sonic Youth e My Bloody Valentine, non possono più, ora, ovviamente rappresentare. Sono i Julie a essere come loro, ad avere un senso profondo. Discorsi un po’ banali? In fondo sì, perché è ovvio che il rapporto stretto con la popular music è sempre passato anche da un senso di appartenenza e vicinanza, e che sia almeno in parte ancora così, pure per queste generazioni cresciute coi social network, un pochino mi rincuora.
Bene quindi che, dopo le prime note, parta subito il pogo; che sulle facce dei più giovani – in effetti c’erano anche quarantenni/cinquantenni come me – sia stampato un entusiasmo e una passione che è prerogativa necessaria di quell’età; che il banchetto sia preso d’assalto e svaligiato nonostante i prezzi (vinile a 40€? e sticazzi!!), che insomma saranno in tanti a ricordarsela come una serata memorabile. È così anche per me? Non proprio. La mia sensazione è stata che a fronte di un suono potentissimo e di una tenuta del palco sicuramente da scafati professionisti, siano ancora debolucci sul versante canzoni (paradossalmente mi sono sembrate migliori tutte quelle uscite sugli EP che hanno preceduto l’album, più fresce e intriganti), non tanto per una questione di scarsa originalità o per il loro essere derivative, quanto più per un lavoro di scrittura ancora troppo acerbo e ripetitivo al momento, che dal vivo soprattutto, alla lunga, annoia un po’ (e il fatto che i vari pezzi vengono intervallati da intermezzi rumoristi, non proprio brevissimi, di base usati per accordare gli strumenti, smorza anche un po’ il ritmo e la compattezza dello show).
Non male, in fondo, intendiamoci, ma alla fine devo dire che ho apprezzato di più i Robber Robber in apertura, parimenti giovani e pure loro non propriamente originali, ma con un suono più studiato, sfumature sonore maggiormente diversificate (esplicitate anche da una minore, univoca identificabilità di genere, diciamo tra post-punk, indie rock e shoegaze) e una scrittura più matura che, nelle laterali melodie cantate dalla brava Nina Cates, trova modo di trovare la via per rendersi decisamente interessante. Arrivano dal Vermont, hanno pubblicato un disco intitolato Wild Guess lo scorso luglio e, probabilmente, meritano di essere tenuti d’occhio.