Foto © Rodolfo Sassano

In Concert

Kamasi Washington live a Milano, 22/4/2025

Se c’è un artista, negli ultimi anni, che può essere identificato come l’apripista di un’apertura del jazz a un pubblico nettamente più pop, chiaramente senza abbracciarne i topos, quello è senza dubbio Kamasi Washington, il quale, fin dal suo mastodontico primo album, ha saputo conquistare un numero e una tipologia di ascoltatori (all’epoca) per nulla usuali per il tipo di sound proposto. Certo, il sassofonista americano non arrivava dal nulla, vantava collaborazioni con grandi artisti hip hop e black, ma pur adottando un approccio contaminato e moderno, la sua musica, in maniera profonda, a volte addirittura classica, è sempre stata e rimasta jazz. È forse in questo suo seguire un doppio binario, magistralmente sovrapposto, che sta il segreto del suo successo.

Il concerto tenuto con la sua band il 22 aprile 2025 all’Alcatraz di Milano, avrebbe dovuto svolgersi l’anno scorso, come preview dell’ultima edizione del JAZZMI. Saltato quello per un problema fisico, è stato recuperato ora, diventando di fatto un volano per il prossimo di JAZZMI, i cui primi nomi sono stati infatti annunciati proprio in questi giorni.

Apre la serata la bravissima musicista italiana Maria Chiara Argirò, sul palco in trio come sull’ultimo, ottimo Closer. Peccato che il locale sia ancora in larga parte vuoto, perché la sua musica, brillantissima fusione di elettronica e nu-jazz, melodie art-pop e sottile devianza dance, senz’altro sarebbe stata gradita da chi più tardi affollerà la sala. I suoi pezzi funzionano molto bene anche dal vivo – bravissimo in particolare il batterista Riccardo Chiaberta – visto anche il perfetto bilanciamento tra momenti downtempo, alternati ad altri nettamente più propulsivi e caleidoscopici.

Con leggero ritardo sui tempi, una quindicina di minuti, è poi la volta di Kamasi con la sua band, con lui a sax e tastiere a formare un ottetto poi composto dal padre Rickey Washington (sax soprano e flauto), Miles Mosley (basso e contrabbasso), Brandon Coleman (tastiere), Ryan Porter (trombone), Tony Austin (batteria) Dj Battlecat (djing, elettronica e percussioni) e Patrice Quinn (voce), tutti gran virtuosi del proprio strumento e in larga parte con Washington fin dagli inizi. Nel frattempo la sala s’è riempita – non c’è il sold out, ma la partecipazione è più che buona, specie se consideriamo che casca in mezzo a festività e ponti vari, in una città che in giorni del genere tende a svuotarsi – e si può iniziare.

Il grosso del repertorio arriva dall’ultimo Fearless Movement, uscito all’incirca un anno fa. Come si diceva all’inizio, il suono è pieno, orchestrale, profondamente jazz, ma indubbiamente aperto a farsi imbastardire da altri generi e altre suggestioni. Di tipicamente jazz, strumentazione a parte, c’è il ricorso costante all’improvvisazione a il lasciare a ogni strumentista il suo momento in cui dilungarsi in assoli. È questa una caratteristica che rende il tutto particolarmente corale, unitario.

Quando poi è Kamasi stesso a farsi carico della parte solista, le cose risultano ancora più esaltanti. Qui m’è parso veramente stratosferico soprattutto nei due brani iniziali, una Lesanu dall’assolo lunghissimo, a tratti tendente al free, e una Asha The First costruita su un’idea melodica rubata allla figlia di quattro anni, intenta a strimpellare sul suo pianoforte alle 6 del mattino (come raccontato in una divertente introduzione da Kamasi stesso).

Lungo la scaletta, ad ogni modo, emergono tutte le caratteristiche della sua musica, dall’afflato spirituale e comunitario – «la musica come aggregatore tra gli uomini, al di là del credo, della cultura, del colore della pelle e della lingua usata» ha detto – alla propensione a portare il jazz nel contemporaneo, vedi gli scratch e i campionamenti del Dj (che ha eseguito in solitaria Get Lit armeggiando con la sua consolle), fino all’utilizzo di stilemi hip hop o dell’auto-tune alla stregua di uno strumento musicale (cosa evidentissima in una Road To Self con Coleman a mescolare la sua voce filtrata a ciò che stava suonando sui tasti bianchi e neri).

Due ore di concerto appassionate e appassionanti, ecumeniche per certi versi, sia musicalmente che concettualmente, tanto da risultare perfettamente allineate nei temi a molti dei discorsi sentiti (per ovvie ragioni) in questi giorni. Un vigoroso abbraccio tra le persone, nel nome della musica.

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