Foto © Lino Brunetti

In Concert

Karate live a Milano, 10/5/2025

I bostoniani Karate, di tutti i gruppi in qualche modo apparentabili al post-rock, allo slowcore o al post-hardcore che dir si voglia, in Italia sono sempre stati tra i più amati, con uno zoccolo duro di fan che ne ha sempre seguito le gesta e non ha mai fatto mancare loro seguito e affetto. Un giro dalle nostri parti lo avevano già fatto nel 2022, l’anno della reunion, dopo quasi un ventennio di stop, ma nel frattempo hanno pubblicato un disco nuovo – l’ottimo Make It Fit, uscito l’anno scorso su Numero Group – e quindi quella che poteva pure essere una ripresa delle attività un po’ estemporanea, ha alla fine preso definitivamente sostanza.

Che il seguito di cui godono nel nostro paese sia effettivamente solido, è dimostrato dal fatto che alle cinque date inizialmente previste, andate più o meno tutte sold out, siano stati aggiunti anche dei raddoppi, tipo questo del 10 maggio allo Spazio Teatro 89 di Milano, chiaramente nuovamente tutto esaurito, con alcuni che non hanno mancato di farsi addirittura la doppietta.

In apertura, la cantautrice pop elettronica sperimentale Giulia Impache, che avevo da poco visto in apertura del concerto di Soap&Skin e che qui ritrovo in trio, anziché in duo come l’ultima volta. Oltre a lei a voce, tastiere ed electronics e al chitarrista Jacopo Acquafresca (anche all’elettronica), c’è stavolta anche il bassista Andrea Marazzi. Si ritrova così sul palco l’intero team che ha realizzato IN:titolo, album che è chiaramente, di nuovo, base per la performance, nuovamente intensa, anche se non sempre facilissima (nella versione in duo, m’era sembrato che le asperità fossero ridotte, stavolta no).

Essendomeli persi nel 2022 – e chi si ricorda perché – per ritrovare la volta precedente in cui avevo visto i Karate dal vivo, credo mi tocchi tornare indietro all’11 luglio 2004, ai Ghost Days nei Giardini Estensi di Varese. A chi si ricorda quelle due splendide giornate – nelle quali suonarono anche 16 Horsepower, The Ex, Zu e One Dimensional Man, tra gli altri – inevitabilmente scorrerà sul viso una lacrimuccia di commozione e nostalgia.

La formazione è quella storica in trio, ovviamente, con Geoff Farina a voce e chitarra, Jeff Goddard al basso e Gavin McCarthy alla batteria. Chiaramente invecchiati, ma assolutamente in forma, non sono tipi che concedono chissà che allo spettacolo. Quello che fanno è salire sul palco, imbracciare o prendere posto dietro gli strumenti e suonare. Ma basta questo per creare magia.

L’illuminazione del palco è basica, luci bianche accese e fisse – la stessa che usavano sempre gli Shellac, personaggi della stessa genìa – e pure ai piedi di Farina, quelli che si vedono sono giusto due pedalini in croce, l’essenziale proprio, nessuna pedaliera stratosferica. Ma gli basta questo, quando le sue dita scorrono sulla chitarra, per dimostrare di essere uno dei più talentosi e originali chitarristi della sua generazione (per chi scrive, nell’epoca delle derive jazz-rock, addirittura fin troppo bravo).

La sezione ritmica formata dal preciso Goddard e da un McCarthy capace di essere potente e raffinato al contempo, ovviamente serve al meglio le melodie delle canzoni e gli incisi chitarristici messi a punto da Farina, come del resto deve sempre essere in un power trio che si rispetti, dove ogni elemento ha pari importanza nell’economia del tutto.

Il repertorio, attinto da un po’ tutti gli album, viene suonato in maniera diretta, senza fronzoli, leggermente ripulito da quella sofisticazione jazz che aveva preso il sopravvento durante gli ultimi anni, prima dello scioglimento. La cosa giova alla performance, che risulta puntuta e ficcante quando appaiono pezzi come Diazapam o Defendants, potenti e tirati, ma perfetta anche quando si scivola in cose più ipnotiche e vicine allo slowcore, come Small Fires, Water o Alingual.

Farina ogni tanto intima a qualcuno di non filmare o fare foto durante lo show – un cartello all’ingresso diceva che lo si poteva fare solo durante i primi tre pezzi, la regola che vale per i fotografi professionisti, insomma – ma, a dire il vero, il grosso dei presenti sembra veramente essere assorbito dalla musica, una vera rarità di questi tempi. Quando poi partono pezzi come Sever o This Day Next Year, due tra i miei pezzi preferiti della band (credo non a caso messi in chiusura di set), sono brividi e pure se non sempre io ne ho apprezzato al 100% ogni mossa in passato (lo ammetto), devo dire che m’erano mancati. Gran concerto.

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