Foto © Lino Brunetti

In Concert

La Prima Estate, 20 – 21/6/2025, Lido di Camaiore

Soprattutto in questi tempi in cui impazzano i «leoni da tastiera», diventa sempre più necessario testare le cose con mano propria, per valutare esattamente come stanno le cose. Delle prime edizioni de La Prima Estate, festival che si svolge ogni anno a giugno, lungo due weekend, in quel di Lido di Camaiore, Versilia, Toscana, avevo letto giudizi fortemente critici, col solito corollario di «in Italia certe cose non le sappiamo proprio fare», etc etc. Ora, io era la prima volta che ci andavo e magari negli anni quello che non andava all’inizio è stato registrato, ma la verità è che raramente mi sono trovato di fronte a un’esperienza festivaliera così ben organizzata e, soprattutto, così godibile e confortevole. 

Nell’accogliente cornice del Parco BussolaDomani, di fatto una pineta con collinetta vicinissima al mare, La Prima Estate propone una serie di attività ricreative e sportive durante il giorno, per poi la sera dar vita a una serie di concerti su un unico palco (molto grande così da permettere una visuale perfetta da qualsiasi parte e, cosa non scontata, con un impianto audio di altissima qualità, sostenuto da volumi come sempre dovrebbero essere). Tra le cose che mi hanno favorevolmente colpito, quello che definirei un «pit democratico», nel senso che esiste (si tratta dell’area denominata Garden), alla quale si può accedere acquistando un biglietto più costoso, ma che occupa soltanto metà dell’area di fronte al palco, lasciando di fatto, anche a coloro che hanno acquistato il biglietto più economico, di arrivare fino alla transenna e stare sotto ai musicisti (certo, per ovvie ragioni, soprattutto nelle serate più affollate, nel Garden si sta più larghi, ma quei soldi in più che si spendono a qualcosa serviranno, no?).

Adeguata e funzionale anche l’area food, con una buona varietà di proposte. L’unico neo, la seccatura della card ricaricabile per pagare, variante degli odiati token, della quale non si capisce la ragione e che si auspica in futuro venga eliminata optando per un più semplice pagamento cashless.

Insomma, per farla breve, atmosfera rilassata, niente code, né per entrare, né per uscire, zero stress e l’opportunità di vedere e ascoltare in condizioni ottimali della bella musica, grazie a una line up varia e di qualità. Delle sei serate di quest’anno – giunte a conclusione proprio nel weekend appena passato – io ho avuto modo di assistere alle prime due, per i miei gusti le più interessanti (anche se, avendolo potuto fare, sarei andato volentieri anche alle altre, in special modo a quella con i TV On The Radio come headliner).

Venerdì 20 giugno, col sole ad incombere sulle teste di coloro che sono arrivati in anticipo, si apre col sound urban jazz dei vicentini Tare. Sono in pochi a sfidare il solleone per stare davanti al palco e il più degli astanti (me compreso) li orecchia dalla collinetta o stando al riparo sotto gli alberi, magari sorseggiando una birra o un cocktail. Diversa la faccenda quando sul palco salgono gli Yard Act. La band inglese guidata da James Smith è nel suo momento di massima creatività; l’ultimo Where’s My Utopia? ha messo in evidenza il loro sapere andare oltre i limiti del post punk, aprendo a scenari funk, disco e hip hop, espressi in un dinamismo rock che dal vivo, ovviamente, esalta facilmente, risultando sempre divertente e ficcante, grazie all’istrionismo del citato Smith senz’altro, ma anche grazie all’affiatamento di una band che fa muovere le chiappe e non fa prigionieri. Atmosfera completamente diversa per lo show, attesissimo, degli Spiritualized di un Jason Pierce parso particolarmente in forma. Nasconde lo sguardo dietro gli occhiali, di parole al pubblico non ne pronuncierà praticamente nessuna, ma la voce è calda e appassionata e a parlare per lui è soprattutto quella sua musica fatta di gospel, rock, psichedelia e tanta anima. I concerti che stanno portando in giro in questo periodo sono di due tipi diversi: o suonano l’intero Pure Phase per via del suo trentennale, o si dedicano a una carrellata di pezzi attinti soprattutto dai dischi dell’ultimo decennio. A La Prima Estate ci tocca la seconda opzione, ma va benissimo, perché i nuovi lavori, quelli più saccheggiati – And Nothing Hurt e Everything Was Beautiful – sono ottimi e, anche dal vivo, le loro canzoni hanno fatto letteralmente correre brividi lungo la schiena, tra impasti di chitarre, organi e il supporto vocale di tre coriste. Per chi comunque voleva anche qualcosa di vecchio, hanno regalato una Shine A Light stratosferica tratta dall’esordio, che a qualcuno qualche luccicone avrà fatto anche cadere. Non essendo gli headliner, tutto si chiude in un’ora, troppo poco per una band così, comunque un bellissimo accontentarsi. A chiudere le serata, l’ennesima band inglese, o meglio, scozzese, visto che parliamo dei Mogwai. Stuart Braithwaite e soci hanno dato giustamente risalto al nuovo The Bad Fire, disco per certi versi anomalo nella loro discografia ma, nel suo andamento continuamente cangiante, anche espressione di una creatività che non s’è per nulla esaurita, ma non hanno mancato di attingere anche da molti degli altri dischi, tirando fuori anche un paio di quelle loro devastanti e lunghissime cavalcate post, fatte di rallentamenti e magniloquenti esplosioni di rumore chitarristico. Bello tutto, ma quando tirano fuori, appunto, cose che potrebbero andare avanti per l’eternità come Mogwai Fear Satan o My Father, My King è l’apoteosi massima di un sound immortale, ipnotico e risucchiante.

La sera dopo, giungo tardi per le performance di Prima Stanza A Destra e Le Nora, i giovani gruppi italiani in apertura. Fin da subito si nota più gente in giro e, infatti, la presenza di pubblico sarà stasera più massiccia di quella precedente, senza che questo vada a discapito della godibilità del tutto. I Calibro 35, dal vivo, li avrò ormai visti una marea di volte, eppure sono sempre un piacere per le orecchie. Non che facciano chissà che scena – se non per un pezzo indossare i passamontagna – ma con gli strumenti ci sanno fare alla grande. Qui, complice l’uscita del nuovo Exploration, tornano sui sentieri della loro performance denominata Jazzploitation, ideata per il JAZZMI dell’anno scorso, ma non mancano di andare anche indietro nel tempo recuperando le cose più tipicamente funk di un disco quale Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale. Aperitivo gustosissimo. A scaldare ulteriormente la serata, poi, lo show di Annie Clark AKA St Vincent. Ad ogni tour, i suoi concerti sono sempre un po’ diversi: qui si presenta con un quartetto di musicisti dalle sonorità piuttosto rock e chitarristiche, con giusto qualche elemento electro dark o vagamente funk a inserirsi nella tessitura. Vestita totalmente di nero, calze smagliate e consueto approccio teatrale, Annie è un vero animale da palco, che poco o nulla lascia al caso, giostrando con enorme consapevolezza qualsiasi movenza o sguardo. Notevoli i momenti in cui ha fatto dialogare la sua chitarra con quella del chitarrista, riuscite le mutazioni rock dei pezzi di MASSEDUCTION, ma ottimi anche i brani dell’ultimo Broken Man, disco ingiustamente passato un po’ in sordina, a partire proprio dalla pungente title-track. A un certo punto appare anche autenticamente commossa dalla risposta entusiastica del pubblico e, per una maniaca dell’(auto)controllo come lei, questa è quasi una notizia. Una fuoriclasse. In chiusura arrivano gli Air. Il cambio palco è un po’ più lungo del normale, visto che la band francese suonerà in una sorta di parallelepipedo, teatro di effetti luminosi, spaziali e futuristici, quasi ci si trovasse nel kubrikiano «viaggio» di 2001 Odissea Nello Spazio. Poco male, c’è il tempo per scambiare in giro qualche chiacchiera, bere qualcosa e rilassarsi. Discograficamente, Nicolas Godin e Jean-Benoît Dunckel sono fermi da eoni e quindi la loro esibizione è tutta rivolta al passato. In fondo, non è per nulla un problema, perché tutta la prima parte è dedicata al capolavoro Moon Safari che, a quasi trent’anni dalla sua uscita, non ha perso un grammo del suo fascino, con dentro pezzi ormai ritenuti dei classici come Sexy Boy o Kelly Watch The Stars, accolti con un boato dal pubblico. I due si dividono tra voci e synth, con Dunckel anche a basso e chitarra (sia acustica che elettrica), ma con loro c’è un notevolissimo batterista, davvero efficace nel dare corpo e spinta ritmica alle romantiche melodie del duo. La seconda parte va a rispolverare qualche altro pezzo da dischi come 10 000 Hz Legend e Talkie Walkie, ignorando ciò che è venuto dopo, ma recuperando un paio di cose dalla colonna sonora di The Virgin Suicides. Non era la prima volta che li vedevo live, ma stavolta mi hanno convinto veramente molto, sia per ciò che concerne la resa scenica, che per quella musicale. Che prima o poi si decidano anche a pubblicare qualcosa di nuovo? Speriamo!

Intanto, qualche nuvola si è addensata in cielo. Scende qualche goccia, ma è poco più che un pugno di lacrime di commozione. Sarebbe bello tornare qui anche l’anno prossimo. Voi, se volete unire qualche giorno di vacanza e bella musica, tenetelo in considerazione.

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