Tutte le foto © Matt Correia

Interviste

Meccanica Celeste: l’eterno movimento sonico di Curtis Harding

Departures & Arrivals: Adventures of Captain Curt è un viaggio a bordo di un’astronave a propulsione (iper)sonica, un lancio nella stratosfera soul e gospel. Un dribbling tra corpi celesti  e supernove seventies. Un’odissea pop funk rock, lungo immaginifiche rotte sci-fi, genere di cui l’artista statunitense è grande appassionato. Un racconto, un pretesto per parlare dell’eterno movimento di questo pirata dello spazio e del suo vascello, lanciato – a tutta la velocità  – da propulsori ricchi di groove e alimentati a massiccie dosi di coolness. In un’intervista esclusiva concessa al nostro magazine in vista delle attese date italiane del suo tour (sarà il 21 ottobre al Social Center TPO di Bologna, il 23 al Monk di Roma e il 24 al Santeria di Milano), Curtis Harding, Han Solo del soul e del rock, ci invita a bordo. Si rivelerà un interessante compagno di viaggio. Conversatore appassionato di musica, ricercatore irrequieto, lettore innamorato di Dumas e di fantascienza…

Hai intitolato uno dei tuoi album Face Your Fear. Qual è stata la paura più grande che hai dovuto affrontare nella tua carriera musicale? Connetterti con il pubblico, il terrore della  pagina bianca o qualcos’altro?
La mia paura più grande, facendo questo lavoro, è sempre stata quella di ripetermi. Ogni volta ho fatto il possibile per evitarlo, per non restare fermo. Cerco semplicemente di progredire, di migliorare costantemente.

La tua musica affonda le radici nel gospel e nel soul, ma mescoli il tutto con psichedelia, rock e funk. Come decidi quali influenze, quali colori dare a un brano?
Bisogna semplicemente lasciar parlare la musica. In sostanza è la canzone stessa che ti fa capire cosa vuole essere. È una questione di sensazioni. È difficile da spiegare, ma il pezzo in qualche modo mi dice di cosa ha bisogno. E poi le canzoni attraversano anche un processo di sottrazione: a volte non serve aggiungere molto. Capisci cosa intendo? Lascio che la melodia e il testo mi indichino ciò che serve. È quasi come creare un piccolo film, non visivo, ma sonoro.

Di solito scrivi mentre sei in giro a suonare o le tue canzoni nascono principalmente in studio?
Scrivo ovunque, a casa o in giro. Davvero ovunque. Quando entro in sala d’incisione, di solito sto spendendo soldi, quindi cerco di non perdere troppo tempo a scrivere lì (ride). In studio registro quello che ho già più o meno costruito. Questo non significa che poi non cambi qualcosa, ma di solito ho già la struttura pronta quando devo registrare.

In che modo l’essere sempre on the road influenza la tua scrittura? Questo continuo viaggiare si riflette anche sul tuo senso di appartenenza?
Viaggiare così tanto mi aiuta a restare aperto ad altri suoni, idee, contaminazioni. Nazioni differenti, ritmi eterogenei. Ogni lingua ha i propri ritmi, ogni città ha suoni diversi, odori diversi, cibi diversi. Tutto questo mi aiuta a essere più aperto, ad ampliare la mia idea di cosa possa essere la scrittura e di come possa suonare la mia musica. Per me è sempre un valore aggiunto trovarmi in un posto nuovo e scoprire qualcosa che non conoscevo: è fonte d’ispirazione.

Il nuovo album si chiama Departure and Arrivals. Da dove sei partito creativamente e dove senti di essere arrivato?
Siamo sempre in partenza da qualche parte. Sempre diretti verso qualcos’altro: nascite, morti, idee scartate, amori che finiscono, viaggi, possibilità che si aprono, altre che sfumano. Molte canzoni parlano di esperienze personali, ma spesso scrivo osservando il mondo e interpretandolo a modo mio. Come ti dicevo, sono sempre in tour, quindi sempre in viaggio; la vita è un’avventura e, per quanto mi riguarda, non voglio mai sentirmi “arrivato”, perché quando arrivi, il viaggio finisce!

Questo disco ha anche un immaginario cosmico hai anche creato un alter ego, Captain Curt. Come è nata l’idea?
Sono un grande fan di fantascienza, libri e film. Unire quell’immaginario con la musica mi ha dato ulteriore libertà creativa. Lo spazio è una potente metafora: il buio, l’ignoto, il viaggio. Se guardi i titoli dei brani –  Time, Out in the Black, Red Out of Space –  c’è una forte componente metaforica che ricorda l’idea di essere nello spazio, anche se solo virtualmente. È stato naturale sposare queste immagini con i pezzi in scaletta.

Questo album è il più complesso che hai fatto?
È stato il più difficile. Ogni disco è diverso: per me sono come case diverse, alcune più grandi, altre più piccole. Dipende da come ti senti quando le costruisci. La prossima potrebbe essere una villa o una casetta nel bosco… non si sa.

In passato hai collaborato, tra gli altri, con CeeLo Green e Danger Mouse. Cosa cerchi in un partner creativo?
Il rispetto reciproco. Cerco persone da cui poter imparare qualcosa. Quando collaboro voglio essere sfidato e arricchito. Ognuno porta qualcosa che io non ho, e due menti insieme spesso lavorano meglio di una.

Qual è stata la canzone più difficile dell’album da scrivere?
Probabilmente Felt It Inside. Avevo la musica ma non i testi; l’ho portata in studio senza parole e ci ho messo del tempo per completarla. È stato l’ultimo brano di cui ho registrato la parte vocale. Non è stato facile ma sono molto contento del risultato.

C’è un artista del passato con cui avresti voluto collaborare?
Sly Stone sarebbe stato un partner incredibile. Purtroppo non è possibile, ma la sua musica  ha influenzato molto il mio lavoro. Collaboro con lui nello spirito.

Il gospel ha segnato la tua voce e sensibilità e, ovviamente, il tuo suono. Questo genere come ti influenza oggi?
Il gospel è sentimento, fede, fiducia. Anche se non sei religioso, ti fa credere in qualcosa: te stesso, la famiglia, l’amore. Dona speranza e offre un’alternativa all’odio.

Quali pratiche ti aiutano a mantenere l’ottimismo nei momenti difficili?
Meditazione e arte: vedere mostre, film, leggere, parlare con le persone, anche con gli sconosciuti. E disconnettersi quando serve: staccare dai telefoni, tornare alla natura e alla comunità. A volte sono le piccole conversazioni a ricaricarti.

C’è un tuo album che pensi non sia stato compreso appieno dalla critica?
Forse If Worlds Were Flowers. È uscito durante la pandemia e non ha avuto lo spazio che meritava, anche se credo che tutto accada per una ragione. Quel periodo è stato complicato anche per le registrazioni, non si poteva essere nella stessa stanza…

Come è cambiata la tua voce dal 2014 e quanto sperimenti vocalmente?
Cerco costantemente di spingermi oltre; non ho formazione tecnica, quindi vado d’istinto. Mi piace sperimentare ma anche trovare la semplicità quando serve: a volte una linea pulita vale più di mille virtuosismi.

Come scegli i singoli dall’album?
Per me conta la melodia: se il ritornello ti resta in testa –  e se lo senti cantato più volte in studio –  allora capisco che può essere un singolo.

Parti dal testo o dalla melodia quando componi?
Quasi sempre dalla melodia: di solito inizio con basso o chitarra e costruisco intorno l’ossatura del pezzo. Generalmenre la melodia e il groove mi guidano.

Quanto contano le relazioni personali nella tua scrittura?
Molto. Osservo le persone, come vivono, come parlano del mondo. L’osservazione è fondamentale per i testi.

C’è un libro o un autore che ami particolarmente?
Leggo molto: James Baldwin è un punto di riferimento, recentemente ho ripreso in mano per la terza volta Fiesta: il sole sorgerà ancora di Ernest Hemingway. Amo Alexandre Dumas: Il conte di Montecristo è tra i miei libri preferiti di sempre. Recentemente ho letto anche diversi volumi di divulgazione e tanti romanzi di autori contemporanei.

Tra poche settimane sarai in Italia. Qual è il posto che ti ha colpito maggiormente nel nostro Paese?
Quando sono andato a Roma per la prima volta l’ho amata subito per l’architettura, il Colosseo, la storia. Mi sono sentito come un bambino in un negozio di caramelle: amo la mitologia, la storia antica e vedere tutta quella meraviglia attorno a me è stato veramente emozionante.

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