
Essendo l’unica data italiana per il giovane cantautore britannico, il sold-out della famosa sala milanese, riempita all’inverosimile, potevamo aspettarcelo. Più sorprendente la trasversalità del pubblico presente, che passa dai baby boomer agli adolescenti senza soluzione di continuità, a dimostrazione del buon livello di fama raggiunta (e, aggiungiamo, meritata) presso gli ascoltatori del nostro paese. Quattro album all’attivo, di cui l’ultimo — Small Changes, molto bello — uscito solo pochi mesi fa e del quale si è parlato anche sulle pagine del Buscadero.
È proprio quest’ultima opera a rappresentare la principale ossatura della setlist: alla fine, avremo ascoltato quasi tutte le canzoni in esso contenute, mentre il resto dell’esibizione sarà equamente divisa tra i brani di Love & Hate e del secondo, omonimo Kiwanuka. Unico brano ripreso dall’esordio Home Again, la title-track. L’act di supporto, J Appiah, fa la sua parte nel cercare di scaldare gli spettatori, tutto sommato poco vivaci, come se fossero in attesa di partecipare ad una cerimonia sacra. E sarà proprio quel che accadrà.
Il tempo di risistemare il palco, creare uno spazio di luci soffuse (con abat-jour sistemate qua e là) e alle 21.30 precise entra Michael con la band e le coriste. Si parte con The Rest Of Me, bella canzone tratta dall’ultima fatica, e alle spalle di Kiwanuka un grande schermo inizia a proporci una sequela di filmati il cui contenuto si pone in linea con quanto stiamo ascoltando. Sono immagini il più delle volte dolci e molto spirituali, esclusivamente riguardanti persone di colore, siano esse adulti o neonati. Senza dimenticare qualche accenno al credo religioso (lui è un cristiano convinto) o a stati d’animo più tumultuosi, da afrodiscendente ostile alle ingiustizie e al pregiudizio razziale dei bianchi (Black Man In A White World).
L’iniziale The Rest Of Me, dicevamo, predispone lo schema di quanto osserveremo e ascolteremo per tutto il concerto (poco meno di due ore). La voce di Kiwanuka, davvero molto bella, risulta essere lo strumento principale; l’accompagnamento del gruppo, sul palco, è buono e soffuso, ma resta decisamente nelle retrovie rispetto al cantante e alla sua chitarra acustica. Un susseguirsi di belle, a volte bellissime canzoni, che il pubblico segue in silenzio quasi religioso: solo raramente, bis finali a parte, si alza da parte di qualche astante un canto sussurrato, giusto per accompagnare i brani più noti.
La miscela folk-soul di Michael è pulita ed efficace, le canzoni scorrono una dopo l’altra in modo omogeneo, senza momenti di particolare accensione: è comunque un bel sentire, perché i brani sono tutti validi e tanto basta. Ricordiamo Follow Your Dreams, Hero, Rebel Soul e il tono quasi spacey di Floating Parade. Rari i momenti in cui altri prendono il sopravvento, fatta eccezione per qualche intervento delle coriste e per alcuni assoli di chitarra elettrica che peraltro ricalcano quelli sentiti nei dischi di studio (à la David Gilmour, per intenderci).
Una convincente versione di Stay By My Side termina lo spettacolo dopo circa un’ora e un quarto di musica, con il pubblico a reclamare a viva voce un supplemento, che puntuale arriva con Lowdown, Small Changes e la splendida Four Long Years, forse il brano migliore dell’ultimo album. Non si può certo finire qui, e infatti l’ultima rentrée in scena prevede Cold Little Heart, di certo il suo brano più famoso (anche grazie ai molti passaggi televisivi di una fortunata serie) e l’ultima Love & Hate, che mette il suggello a una performance decisamente riuscita, accompagnata da un pubblico pacato e riverente, sembrato intimamente connesso alla proposta dell’autore.
L’unico, piccolo rimpianto è quello di non aver ricevuto «scosse» da qualche brano un po’ più vivace che, per quanto raro, nel repertorio dell’artista non manca.