
Michael Wollny Trio
Living Ghosts
ACT
***1/2
Devo ammettere che fino a tre anni fa sconoscevo il quarantaseienne pianista tedesco Michael Wollny. Furono i miei figli, che ogni tanto mi suggeriscono ascolti che si rivelano puntualmente degni di nota, a segnalarmelo. E interessantissimo si rivelò, per l’appunto, l’ascolto dell’album Ghosts (2022) che mostrava all’opera un classico trio pianoforte-contrabbasso-batteria, però con alcune peculiarità. Ad esempio, più di talune analoghe formazioni come, ad esempio, il trio di Bobo Stenson o quello – più recente – di Julia Hülsmann, il gusto per le trame larghe, rade e rarefatte è qui più di un lógos dominante: è proprio un tratto contraddistintivo del Wollny Trio. Poi, altrettanto interessante è la scelta del repertorio che procede da opportuni riferimenti stilistici che parlano molto eloquentemente della generazione a cui il pianista appartiene: si va da Schubert a Gershwin, fino a Nick Cave e al gruppo canadese Timber Timbre.
Poi ho scoperto che questo artista ha serissimi studi alle spalle presso il Conservatorio di Lipsia ed è attivo sulla scena sin dal 2001. Quindi, con accresciuto interesse, mi sono approcciato a questo Living Ghosts, pubblicato dalla ACT, album dal vivo registrato durante la data del 19 Aprile del tour dell’anno scorso a Illipse, Illingen. Con lui ci sono (da anni!) ancora gli ottimi Tim Lefebvre (grandissimo bassista, in questo gruppo scopertosi magnifico contrabbassista) e Eric Schaefer (batterista perfettamente equidistante dal jazz, dal funk, dal punk e dal prog).
Ora, non so dirvi se in queste quattro corpose tracce troverete quelle che nelle intenzioni del titolare dell’opera sarebbero «(…) bellissime sessioni dove i fantasmi del repertorio del trio ci fanno visita secondo il loro volere». Di sicuro vi si ascolta una palese e piacevole conferma del disco del 2022, ma con una paletta espressiva ancora più ampia, a partire dal primo brano che mette assieme due notti: la Nacht di Alban Berg e la Rufe in der horchenden Nacht di Paul Hindemith. Senza soluzione di continuità si assiste alla gustosa interazione tra i tre che si pungolano vicendevolmente alternando sapientemente i momenti di diradamento della tensione, quelli di rilassato swing chickcoreano e quelli di forte fremito creativo. E pensare che in questo caso i temi-canovaccio appartengono al repertorio classico del novecento!
Altro medley è quello che unisce la Hauntology del pianista, la In a Sentimental Mood di Duke Ellington e la Little Person di Jon Brion. Che dire? Anche qui un interplay totale, denso, dai mille rivoli improvvisativi con un protagonismo che passa di strumento in strumento e una consequenzialità che sa essere logica e dionisiaca a un tempo. E anche nella performance che fonde la Hand of God di Nick Cave e la Lasse! del compositore trecentesco Guillaume de Machaut le invenzioni di ogni membro del trio si intersecano e si sovrappongono, magari con qualche indulgenza alla solennità, ma sempre dentro canoni assolutamente cool.
L’ultima traccia vede coesistere la Willow’s Song di Paul Giovanni (è un attore e musicista, non fa il papa!) e la This West del tastierista Jeff Babko (che con Lefebvre ha collaborato anche su disco) e, partendo con l’oramai classico clima da EST o (mi ripeto?) da Bobo Stenson, diventa pretesto per uno stream of consciousness assai prossimo nelle intenzioni e nel metodo a quanto lo Standard Trio di Jarrett fece con la God Bless The Child nel Vol. 1 della discografia di quel combo.
Un disco molto bello che dà ampia prova dell’eccellenza di questo pianista e di questo trio.