Interviste

Navigare nel suono: il viaggio nel jazz di Paolo Fresu

Il Mare Nostrum solcato per la quarta volta insieme, su una nave sospinta da note altre, con Jan Lundgren e Richard Galliano. Una lunga intervista che è, in qualche modo, diario di bordo. Un racconto composito in cui si citano Enrico Rava, Stefano Bollani, Omar Sosa e ancora Uri Cane, il Devil Quartet, o il suo storico Quintetto. Una nave agile, la Legacy di Paolo Fresu. Equipaggi mutevoli, quelli con cui ha condiviso la navigazione in decenni di jazz, a volte facendo tratti lungo le rotte a suo tempo percorse da Miles Davis e Chet Baker. Sottocoperta un libro diverso ogni sera e un approdo differente ogni volta: può essere quello di una locanda di pescatori, dove le voci sono eco del progetto condiviso con Sosa e il cibo è linguaggio comune di contaminazioni, o la terraferma di Time in Jazz. Berchidda, la Sardegna, luogo dell’anima, come la sua Bologna o una label — TǔkMusic — che è casa e accoglie tutti gli innamorati della bellezza.

Com’è andata quest’ultima edizione di Time in Jazz?
A detta di tutti è stata probabilmente la migliore. Almeno degli ultimi dieci anni. Un festival magnifico sotto il profilo musicale, con bellissimi concerti sul palco principale e nelle altre location della manifestazione. Il 13 agosto, Danilo Rea al pianoforte ha regalato al pubblico un’esibizione memorabile, poi è salito sul palco Anders Trentemøller con la sua band, in un live che ha completamente scosso la piazza. In cartellone, proposte molto diverse: il trio di Stefano Bollani, il solo di Giuseppe Vitale, Enrico Rava, Svaneborg-Kardyb, un duo clamoroso di ragazzi danesi, che sono stati una rivelazione. Il tutto senza dimenticare i vari concerti esterni: Paola Turci a L’Agnata, e Nick The Nightfly per citarne un paio. Il pubblico ha risposto entusiasticamente: abbiamo fatto tre sold out in piazza e in altre occasioni siamo andati vicinissimi al tutto esaurito. Per un festival jazz è qualcosa di significativo. Un’edizione di Time in Jazz in cui, a detta del pubblico, traspariva la sintonia e l’armonia tra lo staff, un gruppo di lavoro di centinaia di persone. 

Recentemente ho riletto la l’autobiografia di Miles Davis, dove lui diceva di aver intavolato un progetto, rimasto (purtroppo) solo su carta, con Jimi Hendrix. Siamo nella categoria delle «chimere», delle registrazioni mitizzate, teorizzate (e che in sostanza non si trovano), di what if?, illusioni della discografia. Miraggi. C’è un album che Paolo Fresu ha sempre cercato, ascrivibile a questa casistica? Un lost record, un bootleg, un Sacro Graal introvabile che non è mai entrato nei canoni della discografia jazz ufficiale? 
Sono un ascoltatore tutto sommato normale. Non sono un collezionista; ovviamente mi piace avere delle cose magari un po’ rare, eccetera. Ho quasi tutto di Miles Davis, quei bellissimi cofanetti sulla sua produzione con Gil Evans, o i box del suo quintetto, o le cose di Bitches Brew: bellissimi oggetti, tutti begli ascolti. Probabilmente anch’io andrei su quell’idea con Jimi Hendrix. Lavorando a Kind of Miles, il progetto teatrale, ho ripreso in mano praticamente tutto quello che ho trovato su di lui. Alcuni libri, come l’autobiografia scritta con Quincy Troupe, li avevo letti a suo tempo. In quel volume c’è un passaggio in cui si parla del chitarrista di Seattle e dell’intenzione di collaborare, ma una registrazione in studio non è mai stata fatta, perché Jimi se n’è andato pochi giorni prima. Per cui probabilmente anch’io, da appassionato, farei quella scelta. E poi c’è un’altra cosa. Negli anni ’80, collaborai con David Liebmanin un disco che si chiama Inner Voices. Lui aveva suonato con il gruppo di Miles. Un giorno mi vedo recapitare a casa una cassetta speditami da Liebman: era la registrazione di un suo concerto dal vivo con Davis. Sono quasi svenuto perché era arrivata questa cosa a Berchidda, un nastro inedito con Miles e Liebman, mai pubblicato. Devo avere quella cassetta da qualche parte…  probabilmente il sogno vero è ritrovarla…

Hai interpretato My Funny Valentine per Tempo di Chet: Roberto Cotroneo, nel suo romanzo su Baker, immagina che il trombettista non fosse scomparso ad Amsterdam ma avesse inscenato la sua scomparsa, lontano da tutto e da tutti, in un buen retiro pugliese. L’autore di Chet, in un passaggio del libro, fa dire al coprotagonista una frase su My Funny Valentine che mi ha colpito molto: «Valentine è esattamente le note che non sono scritte, come la vita di Chet, quella vera, non sta nelle biografie, non sta negli aneddoti, sta in quello che nessuno è stato capace di dire, neppure lui». Sei d’accordo, da profondo conoscitore dell’arte di Baker, da musicista e interprete di quella canzone?
Sì, sono totalmente d’accordo. Si tratta di un libro con una grande poetica, dove c’è questo racconto su Chet Baker più o meno veritiero, ovviamente la storia è romanzata, però all’interno ci sono molti elementi che appartengono invece a Chet con quella idea. Chissà cos’avrebbe scritto, cosa avrebbe suonato se fosse stato ancora in vita. My Funny Valentine è diventata la sua ossessione, il suo cavallo di battaglia. Ne ha suonate mille versioni diverse e anch’io non potevo esimermi dal farlo. Concordo con quelle parole perché ciò che non c’è, di fatto, è ciò che continuiamo a cercare ogni giorno. E la bellezza della musica sta lì. Sono in giro da 45 anni ormai, per cui se non avessi ancora voglia di cercare ciò che non ho trovato, e fortunatamente mancano all’appello un sacco di cose, mi annoierei a morte. Bisogna diffidare di coloro che hanno la verità in tasca: esiste sempre meno, e soprattutto in musica. La sua bellezza è che si nasconde perennemente. La musica scarta, si nasconde, ti sottrae cose che tu devi andare a cercare, te le devi guadagnare ogni giorno. Noi artisti, ma anche il pubblico. Per cui questo mistero di una musica che non è cartesiana è l’unica maniera che ci permette di andare avanti. Trovo molto interessante questa cosa dell’assenza, del cercare, delle note che non ci sono. Quest’idea della ricerca, del silenzio temporale, appartiene assolutamente al jazz. Chet è stato principalmente un grande poeta, con la tromba e la voce, e quando si scrive in poesia c’è il rapporto con lo spazio e con il silenzio che è molto importante. Da questo punto di vista, quelle parole di Cotroneo sono giuste per descrivere l’uomo e il personaggio. Quando noi abbiamo messo in piedi il lavoro teatrale la sfida era quella, cioé raccontare a teatro il Chet Baker artista, quello che tutti conosciamo, ma anche il Chet Baker uomo, perché è nell’insieme delle due cose che si può ricostruire quella figura incredibile, rocambolesca, caotica nella vita e perfettamente giusta nella musica. Un uomo controverso che sicuramente quelle parole riescono a descrivere abbastanza bene. My Funny Valentine è la quintessenza di quel pensiero.

Il progetto Legacy è servito anche per fare i conti con il concetto di tempo, di evoluzione. Legacy è un’eredità appunto da tramandare, anzi tre. Perché c’è quella con il Quintetto, con il Devil Quartet e il duo con Uri Cane. Qui, parafrasando Miles, avete scelto di essere ahead, cioè di guardare avanti con musica nuova, trovandovi quindi in studio per partire con ex novo con un nuovo discorso. Sarebbe stato più facile, più comodo, ma assolutamente legittimo, fare anche una sorta di best of andando a pescare da alcune cose che avevate fatto in precedenza. Questo è stato un modo per ribadire che la musica, questa alchimia che c’è tra di voi, è ancora così forte? Un modo comunque per guardare avanti? 
Assolutamente sì, è vero. Sarebbe stato facile prendere materiale vecchio o andare in studio a suonare le cose più significative, più rappresentative che abbiamo fatto in passato. Invece io volevo affermare, attraverso tre dischi totalmente improvvisati, questa necessità. Quando proposi l’idea a Uri Cane non fece una piega, mentre i ragazzi del quartetto e del quintetto non erano così convinti in un primo momento. A registrazioni terminate, erano entusiasti, colpiti dalla freschezza, dalla novità.  Per cui sì, volevo dimostrare sostanzialmente che la musica si rafforza, si costruisce dopo anni di collaborazioni. Sapevo che si poteva finalmente — solo ora, non prima — andare in studio e, senza dirci una parola, iniziare a suonare. Uno di noi partiva e gli altri andavano dietro, oppure uno si fermava e tutti si fermavano. Questi meccanismi, quest’interazione avviene solo quando c’è un impianto così forte, che deriva dal tempo, dal fatto di stare assieme da così tanto, che alla fine la libertà si conquista. Con la voglia, il rispetto, con la costruzione anche delle relazioni umane anche prima di quelle musicali. Quindi se esistono dei gruppi da così tanto tempo, questo ti permette poi di poter andare in qualsiasi direzione. Non solo di poter prendere una canzone qualsiasi facendola diventare tua, ma anche di partire da zero, da una nota, da un’idea e da lì costruire la musica assieme perché c’è questa idea di condivisione del silenzio, dell’idea che cammina, che in qualche modo ci si passa gli uni con gli altri. Sono tutta una serie di cose che si costruiscono negli anni e solamente nel momento in cui sono così palesemente forti ti permettono poi di rischiare. Noi eravamo in studio, ma di fatto era come se fossimo sul palco. Per l’occasione, abbiamo fatto 7/8 sedute di 40 minuti. In seguito, abbiamo preso solo le parti che ci piacevano di queste lunghissime improvvisazioni, le abbiamo separate e sono diventate brani. Non abbiamo aggiunto nulla, non c’è niente di sovrainciso. La cosa è fattibile solamente se c’è una storia comune molto lunga. Questi tre lavori sono un punto di arrivo che in realtà è un punto di transito: spero di non arrivare mai…

Recentemente è uscito un nuovo disco del progetto Mare Nostrum: chi tra voi propose ai colleghi di collaborare?
Allora c’era un agente che si chiamava René Hesse, uno svizzero, un collaboratore di Jan Lundgren, il pianista svedese che aveva già suonato con Richard Galliano. Quest’ultimo, a sua volta, aveva suonato con me. E da queste connessioni è nata l’idea di creare questo trio. Lundgren scrisse un pezzo che si chiamava Mare Nostrum, diventato il titolo dell’album, il primo, registrato in Italia, e poi il nome del nostro progetto. Per la prima volta, in questo disco, ho scritto tutti i temi pensando al Mediterraneo di ora, riflettendo sui flussi migratori. E quindi c’è un tema che si chiama Life, un altro, che amo molto, intitolato Hope.

A tuo avviso qual è il lavoro più difficile, forse quello che al tempo venne capito meno, nella produzione di Davis? Pensi che la palma di «disco incompreso» possa andare a The Man with the Horn a suo tempo bistrattato da parte della critica? 
Un bellissimo LP. Lo apprezzai moltissimo: è il lavoro del suo ritorno dopo il lungo esilio autoimposto. Quando ho sentito The Man with the Horn sono rimasto folgorato da questo suono totalmente nuovo, che era molto più rock, molto più binario. Miles suonava con i sovracuti, cosa che aveva fatto pochissimo in precedenza. Andai a sentirlo due volte, sia a Terni sia a Torino, dove suonava con John Scofield e Al Foster. Mi aveva colpito molto anche negli album successivi —Decoy, Tutu, You’re Under Arrest. The Man with the Horn aveva questo blues lentissimo, quasi un ritorno alle origini con un suono nuovo. Era così, molto criticato dai puristi perché andava sempre avanti, tant’è che le sue cose oggi sono normalissime. Però, allora, qualcuno non lo considerava jazz. Lui non si è mai fermato: sempre ahead, sempre avanti, ed è un po’ la filosofia che anch’io cerco di fare mia.

Tornando alla tua produzione discografica, Food ha chiuso una splendida trilogia con Omar Sosa. Tornerete in studio?
Con Omar c’è una bellissima amicizia, abbiamo fatto tre lavori insieme, Alma, Eros e Food. Lavori, a nostro avviso, molto belli e in cui c’è sempre un concept dietro. Di certo andremo in studio ancora. Ora non so quando, perché stiamo continuando a girare con Food. La collaborazione con Omar è molto stretta, prolifica. Entrambi amiamo tantissimo la registrazione di un concerto dal vivo di circa 15 anni fa, stiamo considerando la possibilità di pubblicare un live in futuro.

In Food, mi ha colpito l’idea di questo inserto del rumore di fondo dei ristoranti, delle cantine, il vino versato in un calice o l’olio che frigge. Le voci in un ristorante, in sala, in cucina; i dialetti, il sardo che si mischia con l’italiano, lo spagnolo, il giapponese. Chi tra voi ha avuto questa idea di raddoppiare la narrazione, il racconto? 
Tutti e due, in maniera uguale. Tutto quello che c’è in Food è totalmente condiviso, i pezzi li abbiamo scritti assieme, l’idea è nata assieme a tavola, ovviamente mentre stavamo mangiando. In quel frangente abbiamo convenuto che fosse il momento giusto per fare un disco nuovo. Alcuni ospiti li ha portati Omar, altri io. Penso a Cristiano De André. È il lavoro in cui ognuno, veramente, ha portato il proprio «piatto»: lui le voci cubane, io quelle sarde.

Qual è stata invece la genesi del progetto su David Bowie e come è stato soprattutto addentrarsi nel repertorio del Duca Bianco?
Tutto è partito da un invito ricevuto dal Comune di Monsummano Terme. Qui, nel 1969, Bowie partecipò a un concorso e arrivò secondo, dietro a una cantante catalana. Da allora, come dire… agli abitanti di Monsummano è rimasto sempre questo «peso» — lo dico scherzando — sulla coscienza. Quindi, dopo cinquant’anni, hanno deciso di omaggiarlo con una giornata speciale, chiedendomi di realizzare un progetto sulla sua musica. Ho accettato, non senza remore: conoscevo la sua produzione ma non nel dettaglio, a differenza di mia moglie. Ho subito pensato ad alcuni artisti, da coinvolgere partendo da Christian Meyer: avevo bisogno di quel groove, di quel suono. C’era il problema della voce: chi poteva interpretare Bowie? C’era il rischio di fare una brutta fotocopia e quindi alla fine mi è venuta questa idea di chiamare Petra Magoni. Il primo concerto che abbiamo fatto a Monsummano Terme è stato molto bello, per noi e per il pubblico. C’era un tale entusiasmo nel gruppo… perché era un progetto spiazzante, originale, diverso. Quindi abbiamo deciso di andare in studio ed è stata un’esperienza molto interessante sotto tutti i punti di vista: l’approfondimento su Bowie, la scelta di brani, alcuni molto conosciuti, penso a Heroes, Space Oddity, oppure a Life on Mars, abbinati ad episodi meno noti, rivisti e reinterpretati con uno spirito totalmente nuovo. 

Quanto è importante per TǔkMusic anche l’aspetto estetico, la grafica? La veste è molto elegante...
È decisamente importante: la label nasce in origine per produrre dischi di giovani musicisti italiani, poi è diventata anche la mia etichetta, nonostante ogni tanto faccia qualche disco con altre case discografiche — in passato per ECM, oggi principalmente per la Act. Tǔk si basa anche sulla mia passione per l’arte contemporanea e l’illustrazione. Scelsi il formato base delle pubblicazioni: un riquadro bianco con all’interno un’opera, di volta in volta differente. Siamo partiti con artisti italiani, poi con il tempo abbiamo coinvolto illustratori giapponesi, spagnoli, malgasci, americani. Mi piace molto l’idea di mettere insieme la qualità della musica con l’aspetto estetico e visivo. Nei dischi, inoltre, c’è un’altra costante: un aforisma che ogni artista deve scrivere. Insomma, c’è un impianto filosofico, diciamo così, della Tǔk, che mette insieme la musica con altre passioni, compreso il tema del rispetto ambientale. Gli LP che facciamo sono sempre molto particolari, i costi alti, ma noi non ci preoccupiamo di questo. Facciamo le cose che amiamo e in fondo si vendono poi a prezzi normali, anzi, spesso inferiori a quelli del mercato. Siamo contenti così. La copertina è una componente fondamentale per raccontare un prodotto. Molti dischi li ricordiamo anche per le copertine e non solo per i contenuti. Penso per esempio a Bitches Brew, con quella cover incredibile. Succede anche per gli album della Impulse!, della Prestige, della Blue Note. C’erano sempre queste copertine molto speciali. Fuori dal jazz possiamo estendere il discorso al rock citando le grafiche di Rolling Stones e Beatles. Con Tǔk abbiamo pubblicato La Violetera, un bellissimo disco di Gianni Coscia — fisarmonicista di 94 anni — con un artwork interno molto raffinato e sofisticato. Penso siano particolari determinanti, nell’insieme: un’etichetta deve curare tutti gli aspetti produttivi, che siano quelli della musica, della copertina, dello sviluppare un’idea anche sul live. Avere un’etichetta è una bella responsabilità. Non significa solamente mandare un musicista in studio, registrare qualcosa e metterla in un prodotto. Significa considerare anche i parametri dell’estetica, quelli della grafica, quelli dei contenuti. Ecco, un’etichetta curata deve curare a sua volta tutti questi particolari. Passo giorni, settimane a scegliere gli artisti per le cover. Si potrebbe prendere la prima cosa che capita, ma non si avrebbe lo stesso risultato.

C’è questa collana di Giulio Perrone Editori, in cui ad ogni luogo viene abbinato un personaggio: a New York con Paul Auster, a San Francisco con Lawrence Ferlinghetti, a Manchester con gli Smiths, a Berlino con Bowie. Tu dove andresti, dove porteresti i lettori immaginando un’uscita della collana su di te? Se dovessi scegliere un luogo dell’anima sarebbe Berchidda o in un ipotetico volume a te dedicato indicheresti altri luoghi, altri spazi? 
Forse sarebbero due luoghi. Più che Berchidda, la Sardegna in senso ampio, perché come diceva Marcello Serra, «la Sardegna è quasi un continente». Benché sia un’isola, c’è un vissuto, una modalità, una relazione con l’altro, una terra, una storia, una lingua, una musica talmente ricche e talmente forti che forse sarebbe un vero viaggio in Sardegna. La seconda meta sarebbe Bologna, la mia città, che da sempre si lega a doppio filo all’evoluzione e alla storia musicale italiana.

Tornando a questo itinerario nel mondo, sei stato tra i pochi a pagare per entrare a un tuo concerto, se non mi sbaglio in India…
Sì, sì, questa cosa l’ho raccontata da poco a Berchidda, durante la presentazione del libro di Alice (L’unica via d’uscita è dentro, Rizzoli Lizard). Era il 1984, il mio primo viaggio fuori dall’Italia, parlavo malissimo inglese in quegli anni. Mi trovai, per una serie di circostanze, fuori dallo spazio del concerto e questa signorina mi chiedeva il biglietto. Io, disperato, non riuscii a spiegarle niente e pagai il biglietto per poter salire sul palco…

Sei un lettore appassionato. Ti chiedo cosa stai leggendo al momento e se c’è uno scrittore che ha tra le dita, nelle pagine, il ritmo del jazz?
Ho condotto questa rubrica, Libri da ascoltare, su Facebook. Molto seguita. Quest’anno ho recensito dodici libri, di cui otto scritti da donne, tra cui Milena Agus e Isabel Allende. In questo momento sto leggendo Oltre l’umano: Intelligenza artificiale e futuro della civiltà (Bordeaux Edizioni) di Pierluigi Adami. Parlando di scrittori con attitudine «musicale», sono tanti. Uno era Stefano Benni. Parlava spesso anche di musica; abbiamo lavorato insieme, tra reading e spettacoli. Gli scrittori che parlano di musica non sono pochi: tutti quelli che poi ascoltano la musica quando scrivono. In Sardegna c’è Piergiorgio Pulixi, che mi ha citato in La settima luna, romanzo pubblicato da Rizzoli nel 2022. Mi viene in mente anche Jonathan Coe, grandissimo scrittore, estremamente appassionato di jazz, con una sua band. Tra gli autori sardi, penserei anche a Flavio Soriga, altro musicofilo. Mi viene in mente anche Salvatore Niffoi, autore del Venditore di metafore (Giunti). Ricordo anche lo stesso Roberto Cotroneo. A Berchidda ho dialogato conAlessandro Baricco. C’è quel libro bellissimo di Corrado Augias, La musica per me (Einaudi). Ultimamente sto leggendo di nuovo diverse autobiografie. Sono ripartito da quella di Miles (Minimum Fax), che avevo letto inizialmente una trentina d’anni fa. 

Com’è stato ritornare, trent’anni dopo, a rileggerla?
Assume un significato totalmente diverso, probabilmente perché io sono diverso, sono cambiato negli anni. Leggi le stesse parole di allora, le stesse storie, ma in qualche modo le posizioni in un luogo nuovo, in un contesto differente. Mi sono ripromesso di riprendere in mano altre autobiografie, Billie Holiday, Charles Mingus. Anche se, in genere, non leggo molto di jazz. Adesso però mi sto un po’ riappassionando, ho riletto Un lampo a due dita: Scritti scelti (Quodlibet), il libro su Louis Armstrong. Ne abbiamo discusso con Stefano Benni. Insomma, diciamo che c’è, da parte mia in questo momento, una riscoperta della rilettura del grande jazz attraverso i suoi personaggi.

Tra i tuoi dischi ho adorato Shades of Chet, disco inciso con Rava, Bollani, Pietropaoli, Gatto. Quest’estate avete riproposto in concerto a Roma quel progetto, incentrato sulla musica di Baker. Ci potrebbe essere in futuro un nuovo album? 
Abbiamo fatto questi due giorni a Roma, il 6 e 7 giugno; sono stati molto intensi, belli, emozionanti. Ci siamo divertiti, c’era tantissima gente. Il riscontro da parte del pubblico è stato magnifico. Per ora non c’è nulla, ma non abbiamo escluso questa possibilità, non abbiamo assolutamente niente in contrario, anzi.

Ultimissimo flash, telegrafico: Beatles o Rolling Stones?
Beatles. 

PAOLO FRESU SUONERÀ AL JAZZMI DI MILANO IL 2 NOVEMBRE, CON RICHARD GALLIANO E JAN LUNDGREN, PRESSO IL TEATRO LIRICO, CON LO SPETTACOLO MARE NOSTRUM IV.

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