In Concert

Nine Inch Nails live a Milano, 24/6/2025

Riassunto: quando la musica non ti consola, ma ti prende a schiaffi (e tu ne vuoi ancora).

Avevo poco più di vent’anni e una fame strana dentro. Di musica, certo, ma anche di qualcosa che mi strappasse di dosso le cautele e le ipocrisie. Poi un giorno entrai nel mio solito negozio di dischi, che non esiste più, e lo presi in mano quasi per caso: Pretty Hate Machine. Non sapevo bene cosa aspettarmi. Ma bastarono i primi minuti per capire che mi si stava aprendo davanti un mondo nuovo, devastato e bellissimo. Imparai ad amarli così, i Nine Inch Nails. Con le viscere. Con la pelle d’oca. Con quella sensazione precisa di quando ti prendono a pugni nello stomaco, ma lo fanno con grazia chirurgica. Rabbia pura, ma pensata. Dolore gridato, ma con una lucidità che ti paralizza. Niente carezze, niente consolazione. Solo graffi. E cicatrici che diventano affezione. Perché loro, Reznor su tutti, non ti coccolano, ti scarnificano. E tu ringrazi. Nel frattempo, dopo anni passati ad ascoltarli e a tradurre ogni singola riga di The Downward Spiral e The Fragile, i loro live sono sempre stati un’esperienza totale che ti sradica da terra e ti butta in un vortice sonoro da cui non esci indenne. I NIN dal vivo sono come una bestia ferita che non muore. Anzi: azzanna. E questa è la quarta volta.

Il contesto? Milano, Parco della Musica, una location che mi suonava come una fregatura annunciata. Lì per lì pensavo: «ecco, un’altra cagata all’italiana, con palco traballante, birre a 9 euro e acustica da scantinato». E invece, miracolo. Un prato tra gli alberi, l’Idroscalo a due passi e l’Aeroporto di Linate a uno e infatti ci passa sopra un aereo ogni cinque minuti (ma manco te ne accorgi, tanto il suono dei NIN li copre senza pietà). Organizzazione impeccabile, pochissima fila. Certo, la birra continua a costare uno sproposito, ma vabbè, è il prezzo da pagare per certi raduni.

E poi arriva lui. Trent fottuto Reznor. Sale sul palco e attacca con Somewhat Damaged, e tu capisci subito che non sarà una serata “normale”. Nessun B-Stage come in altre date, niente set acustici, niente sperimentazioni “soft” e trasformazioni light. C’è chi si lamenta e non poco. Beh, sapete che vi dico? Io sono contento. Solo quasi due ore di potenza sonora sparata a mille, come un treno in corsa che ti investe e ti lascia a terra con le orecchie che fischiano e l’anima che ringrazia.

La scaletta è da urlo. I classici, certo, ma anche perle che non sentivo da una vita o che non erano mai state suonate prima. The Perfect Drug, per esempio: pezzo assurdo scritto per Lost Highway di David Lynch, che live suona come un delirio sensoriale. E poi Burn, da Natural Born Killers, roba che ti fa salire il battito a mille. Oppure Piggy, che non facevano dal 2009, e che ancora oggi suona come una carezza con un coltello da cucina. Quando parte Wish il pogo esplode. March of the Pigs arriva subito dopo e sembra che la terra stia tremando. Ma poi, come solo loro sanno fare, entrano in una dimensione ipnotica con Copy of A e Discipline (Discipline per dio!) e tu ti ritrovi a ballare come un dannato con gli occhi chiusi, come in trance.

La band è composta da fuoriclasse veri, roba da non credere: Reznor e Atticus Ross, due che hanno vinto Oscar, Golden Globe, Grammy, e probabilmente anche una medaglia al valore per aver salvato la musica da sé stessa. E poi l’italianissimo Alessandro Cortini, Robin Finck, Ilan Rubin. Tutti con una presenza scenica clamorosa, ma sempre con Reznor al centro: sessant’anni appena compiuti, un fisico da trentenne arrabbiato, e una presenza che ti fulmina. Non sorride mai, non dice quasi niente, ma ti parla con ogni singolo gesto, con ogni distorsione. È il padrone assoluto del suono e del silenzio.

E il bello è che non c’è scenografia, non c’è trucco, non c’è inganno. Niente effetti speciali. Solo luci stroboscopiche da apocalisse e loro. La musica e basta. Che è già tutto. Tra le chicche della serata: il debutto live di Echoplex e The Good Soldier, che sembrano nate per suonare in un’area industriale in fiamme. Appena prima di I’m Afraid of Americans (profetico?) arrivano le uniche parole di Reznor: «questa e per il mio amico David Bowie» ed è un pugno nello stomaco, una carezza postuma, un omaggio da brividi. E quando parte Closer, col suo ritornello che ancora oggi ti fa venire voglia di fare sesso, tanto sesso, piangere e distruggere mobili in sequenza, capisci che sì, quella è ancora la canzone.

Chiusura con Head Like a Hole, l’inno originario, il pezzo con cui tutto è iniziato, che oggi suona ancora più potente, più attuale, più necessario. E poi il silenzio dolente di Hurt, cantato a luci spente, con tutto il pubblico in apnea. È lì che ti accorgi che tutto ha sempre una fine che può essere bellissima, definitiva, ma essendo una fine è sempre e comunque dolorosa.

Lo dico? Lo dico: i Nine Inch Nails dal vivo sono ancora la miglior band in circolazione nel loro ambito (e anche qualcosa di più). Punto. Non c’è discussione, non c’è concorrenza. E Reznor è, senza dubbio alcuno, l’ultimo grande genio della musica alternativa. Uno che ha fatto del rumore un’arte, della rabbia una forma di bellezza, del caos un linguaggio universale. E se oggi mi chiedessero perché, a distanza di quasi quarant’anni, io continuo ad ascoltare questa musica che non consola, che non liscia il pelo, che non fa piacere alla mamma… risponderei che è proprio per questo. Perché i Nine Inch Nails non sono qui per farti stare meglio. Sono qui per ricordarti chi sei. Anche se fa male. Soprattutto se fa male.

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