Interviste

Oltre i Jethro Tull: intervista a Martin Barre

Ho avuto l’opportunità di intervistare Martin Barre poco prima del concerto con la sua band al Bellinzona Beatles Days, storica manifestazione musicale giunta alla 23ª edizione. Una kermesse che negli anni ha visto esibirsi artisti del calibro di Procol Harum, Donovan, Tony Sheridan, UB40 e The Animals. Barre, figura leggendaria del rock progressive e colonna portante dei Jethro Tull dal 1968 al 2012, si è dimostrato cordiale, lucido e (forse) fin troppo modesto, viste le sue credenziali artistiche. Ecco cosa ci siamo detti.

Martin, avrei otto domande per te… se sono troppe, riduco a cinque…
Con Ian Anderson non ne serve nemmeno una. Basta dire “Ciao Ian” e lui parla per due ore.

A proposito: qual è oggi il tuo rapporto con lui?
Zero. Ma va bene così. Ho speso milioni di euro in terapia, ora sono socialmente normale [scherza, ma con sincerità NdA] Sono in un posto migliore. Mia moglie ogni tanto mi dice: «Hai visto cosa fa Ian?». Io rispondo: «No, non mi interessa», ma poi le dico: «Fammi vedere». Non mi arrabbio, davvero. Lo trovo semplicemente noioso. Non provo gelosia o rancore. Sono sinceramente più interessato a una qualsiasi delle persone qui attorno: magari hanno storie più interessanti da raccontare.

Quali sono state le sfide più grandi della tua carriera solista?
Scoprire chi sei. Nei Jethro Tull c’era un grande supporto, eri circondato da musicisti straordinari. Se passavi due mesi senza ispirazione, qualcun altro prendeva il timone. Da solista, sei solo tu. Non c’è nessuno che ti copra le spalle. Dan, il nostro cantante, sta diventando centrale nella band: ha una grande personalità e mi dà fiducia. È una crescita personale prima ancora che artistica.

Tornerai in Italia a dicembre, giusto?
Sì, per tre date, ma vorrei fossero trenta! Ho vissuto a Roma e a Livorno per due anni ed è in Italia che ho iniziato a suonare e sono diventato un musicista. L’Italia ha un posto speciale nel mio cuore.

Come scegli la scaletta dei tuoi concerti?
Questa sera, al Beatles Days, sarà diversa dal solito. È un festival dedicato ai Beatles, quindi suoneremo due loro brani: Eleanor Rigby, in chiave metal, e I Want You / She’s So Heavy, già presenti nel nostro repertorio. E poi ho pensato che molti forse non ci conoscano bene, quindi faremo brani celebri, tra i quali tutti quelli dell’album Aqualung. Credo che la gente apprezzerà.

Quali sono le tue influenze musicali?
Tante, ma non nella musica rock. Non ascolto pop, heavy metal, blues o prog per diletto. Li suono, ma fuori dal lavoro preferisco la musica classica. Amo anche il bluegrass e un certo jazz: Miles Davis, Barney Kessel, Oscar Peterson. E poi mi piacciono le “belle canzoni”, quelle di Steve Winwood, Don Henley, Neil Young, persino Crosby, Stills & Nash e, naturalmente, i Beatles.

Ecco, siamo a Bellinzona ad un festival dedicato ai Beatles. Qual è la tua opinione su di loro? 
Beh, li seguivo da quando ero alto così [indica NdA] e li adoro, li adoravo, sì, perché erano un’icona, erano avanti a tutti e ti chiedevi cosa avrebbero fatto i Beatles nell’album successivo, ed ecco che arrivava e wow, era fantastico. Hanno avuto una carriera breve ma stupefacente, e poi li ho incontrati e successivamente ho lavorato con McCartney, sono persone incredibili, incredibili.

Con Paul McCartney hai lavorato su Atlantic Ocean, negli anni ’80…
Sì! È stato pubblicato solo in Giappone. Ho una copia con scritte in giapponese e sto ancora cercando di capire se c’è davvero il mio nome. Se ci fosse, quel disco sarebbe appeso nel mio salotto. Sono molto orgoglioso della collaborazione. Paul è stato gentile. Abbiamo lavorato insieme per una decina di giorni. Ha avuto un impatto enorme su di me, anche se io, non credo di averne avuto su di lui. Ma non importa: ho vissuto un momento speciale e poi ho voltato pagina.

Hai altri progetti in arrivo?
Sto finendo un libro. È più difficile di quanto pensassi. L’ho riscritto più volte. Ogni volta che lo rileggo, diminuiscono le cose che cambio. Ho una sola occasione per raccontarmi, e voglio farlo bene. Vengo da un ambiente umile. I miei genitori erano in difficoltà economiche, ma da bambino non me ne accorgevo. Mi proteggevano. A Natale ricevevo una sola macchinina giocattolo e mi bastava. Oggi, invece, un bambino si chiederebbe: «Dov’è il resto?». Ma quella macchinina per me era tutto. La curavo, la amavo. Non mi sono mai sentito privato di niente. Il libro parte da questo. Mia moglie lo sta leggendo. Se lo troverà troppo deprimente, mi fermerò. Ma per me è solo sincerità.

E musicalmente, cosa c’è all’orizzonte?
Continuo a suonare, ma sto dando più spazio ai concerti acustici. Sono più intimi, più impegnativi, ma ti permettono di parlare con il pubblico. C’è sempre qualcosa da registrare, mixare. Ho abbastanza da tenermi occupato per anni. I tour, però, rischiano di assorbire tutta la tua vita. E io, oggi, voglio stare un po’ a casa. In giardino, a guardare i fiori. E andare a letto pensando: «Domani cosa farò? Potrei guardare ancora i fiori». Non smetterò mai del tutto di suonare, forse rallenterò, ma poi tornerò, perché la musica mi nutre.

Più tardi, ho assisto al live. La band ha un suono di grande impatto, potente e preciso. A metà spettacolo, Barre prende in mano il flauto traverso e scherza: «Se dovete andare in bagno, questo è il momento giusto. Suonerò il flauto per tre minuti». Per fortuna, nessuno si è mosso, valeva la pena rimanere ed ascoltare. Il concerto si chiude con una versione integrale e travolgente dell’album Aqualung, capolavoro intramontabile. Martin Barre arriverà in Italia a dicembre con tre date: il 4 a Mestre (Teatro Corso), il 5 a Rezzato (Teatro CTM) e il 6 dicembre a Legnano (Teatro Tirinnanzi).

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