In Concert

Reconstruction Tour 2025 al Carroponte di Sesto San Giovanni (MI), 17/5/2025

Sulle ceneri del Deconstruction Tour – che già nel nome suonava come un manuale di decostruzione sociale più che musicale – rinasce un evento che sa di fiamme, sudore e disobbedienza. Altro che i festival da salotto sponsorizzati da banche “etiche”: qui si pogano idee, si urla contro l’autorità e si dissacra il tempio del pensiero unico. Benvenuti al Reconstruction Tour. Non è solo un festival punk. È una chiamata alle armi. È il suono della rivolta che risuona al Carroponte di Sesto San Giovanni, ex città operaia ora gentrificata e svenduta a colpi di loft e brunch. Un tempo lì si fabbricava l’acciaio, ora si serve birra artigianale a sette euro in bicchierini di plastica. Ma va bene così, d’altronde la sete non manca.

Non è solo il pubblico a fare capolino nel prato: è la milizia culturale del disagio, con figli al seguito, t-shirt strappate, borchie, voglia di sputare addosso alla narrazione patinata dell’Italia che va tutto bene. Siamo qui, reduci da anni di lockdown mentali, quarantene dell’anima e normalizzazioni tossiche. Se tutto questo abbia un senso non lo so, che tutto questo alla fine del concerto possa proseguire nelle vite reali nemmeno, ma almeno dateci queste poche ore in cui sentirsi vivi.

Cominciano in perfetto orario, alle 18.30, i Dead Pioneers. Nome profetico per una generazione in coma farmacologico. Giovani, sì, ma con una furia da vecchi partigiani. Il loro (semi) hardcore post-punk non è roba integralista ma nemmeno che ammicca a Spotify: siamo nel mezzo.

Poi arrivano i The Iron Roses. Incazzatissimi con tecnici e palco perché «non funziona un cazzo» e hanno ragione. Ska-core che colpisce dritto allo stomaco, come uno sputo in faccia al decoro. Non ci sono luci laser, né balletti preconfezionati: solo rabbia ben organizzata dai due cantanti (un uomo e una donna) che ben si bilanciano.

Ore 20.00: Comeback Kid. Puntuali come una rivoluzione mai arrivata, ma che ora scalpita sotto la pelle. Sono un treno in corsa, sono potenti e non si risparmiano. Andrew Neufeld sul palco è una molotov umana. Divide il pubblico in due: da una parte chi combatte, dall’altra chi osserva. E quando parte il pogo, è guerra. Il mosh pit è la nostra risposta alla passività. Qui si cade e ci si rialza: non come in politica, dove si cade e si resta lì, a fare da zerbini ai potenti di turno. Perché, è bene ricordarlo, le band che stasera suonano sono tutte politiche e senza peli sulla lingua.

Poi succede. Il momento che aspettavo con più trepidazione: Propagandhi. Non una band: una dannata dichiarazione di guerra. Altro che neutralità artistica, qui ogni accordo è una denuncia. Ogni testo, una lezione di storia che a scuola ti censurano. «Fuck Trump», «Fuck Putin», «Fuck la NATO e le banche centrali». Si può dire tutto, ma con la chitarra a tracolla è più credibile. La copertina del loro disco è un quadro del 1899, ma suona più contemporaneo del TG1. Hanno una tecnica esecutiva straordinaria, sono precisi come un orologio svizzero e sono anche purtroppo penalizzati da volumi indecenti che ne oscurano la potenza. La maggior pecca della serata è proprio questa, nelle mie orecchie entrano decibel minimi, mentre le vorrei sanguinanti. Ma loro sono i custodi del pensiero critico in un’epoca in cui anche l’indignazione è algoritmica e pensata come strategia.

Infine, i Pennywise. I padri nobili del dissenso melodico. Niente scenografie, solo amplificatori e voglia di distruggere simbolicamente ogni forma di autorità – soprattutto quella morale. Quando parte Fuck Authority, è come se l’intero pubblico smettesse di fingere che tutto vada bene. Braccia al cielo, medio alzato, e che vada tutto in malora: finalmente un po’ di verità in un Paese dove anche la ribellione è diventata di moda. C’è spazio per Same Old StoryStand By Me, e ovviamente Bro Hymn. Lacrime sì, ma non quelle patetiche del rimpianto: lacrime per chi è morto combattendo, non per chi ha scelto la comodità.

Finisce così. Bicchieri a terra, ginocchia rotte, cuori pieni. Attorno a noi non solo sudore, ma coscienza. Non è stato solo un concerto. È stato un promemoria.

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