Tutte le foto © Rodolfo Sassano

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Roberta Sammarelli lascia i Verdena: la fine di un’era (ma non dei Verdena)

La notizia è arrivata il 22 ottobre 2025, ma era nell’aria da tempo. Dopo oltre venticinque anni, Roberta Sammarelli, bassista del trio insieme ai fratelli Alberto (chitarra e voce) e Luca Ferrari (batteria), ha lasciato i Verdena, una delle pochissime band italiane capaci di costruire, disco dopo disco, un percorso coerente e in costante trasformazione. Non è un fulmine a ciel sereno: chi ha seguito la loro storia, e in particolare l’ultimo tour, aveva già percepito un certo distacco, un diverso modo di intendere la dimensione del gruppo.

Le cose cambiano, inevitabilmente. Cambiano le vite, cambiano i ritmi, cambiano le priorità. E non è un mistero che per Roberta, tra famiglia, tre figlie e la difficoltà più volte dichiarata di conciliare vita privata, lavoro in studio e lunghe tournée in Italia e all’estero, fosse diventato complicato reggere il peso di un meccanismo sempre più impegnativo. Perché stare nei Verdena significa totalità, disciplina, dedizione assoluta. E in un gruppo dove il processo creativo ruota in gran parte attorno ad Alberto Ferrari, il deus ex-machina che scrive, suona ogni genere di strumento, arrangia, registra e produce, adattarsi alla permanenza in quel vortice può diventare insostenibile.

Già durante l’ultimo tour, qualcosa si era incrinato. Le scalette pressoché identiche da sera a sera, i concerti più brevi e la scelta di suonare in spazi più grandi — meno date, ma con più spettatori a concerto — restituivano l’immagine di una band meno spontanea rispetto al passato. Prima, sul palco, poteva succedere di tutto: irriverenza e viva tensione erano parte integrante del loro spettacolo, ma questa volta apparivano attenuate. L’abbandono di Sammarelli chiude idealmente un ciclo iniziato alla fine dei Novanta, quando tre ragazzi di Albino (in provincia di Bergamo) poco più che adolescenti irrompevano su MTV, in piena era post-grunge, con il video di Valvonauta, portando in Italia un suono nuovo, viscerale, contaminato e già pienamente riconoscibile.

Da allora, i Verdena hanno attraversato più di un quarto di secolo reinventandosi con coerenza e coraggio, costruendo un linguaggio che non somiglia a quello di nessun’altra band del paese. Infatti, le loro influenze hanno sempre guardato alle altre sponde dell’Oceano, rivolgendosi verso Seattle, Londra o Los Angeles; costruendo un linguaggio che non ha paragoni nel panorama nazionale. Tutto era iniziato nel 1999 con Verdena, debutto che colpiva per la sua energia e la capacità di fondere grunge, psichedelia e rock abrasivo in un linguaggio già personale e identificabile.

Due anni dopo, Solo un grande sasso (2001) — prodotto da Manuel Agnelli — ne consolidava la poetica: più scuro, più stratificato, meno istintivo, ma già proiettato verso un «altrove» di influenze che spaziavano dai Beatles (la lennoniana Nel mio letto) ai King Crimson (Starless, ovviamente non una cover) intrecciando armonie pop, inteso nella forma più alta del termine, e tessiture prog.

Con Il suicidio dei samurai (2004), il trio trovava una propria maturità: disco teso e nervoso, dove il grunge si piegava a linee melodiche più complesse e la voce di Alberto iniziava a mostrarsi fragile, imperfetta, autentica. Luna — il primo singolo — diventa un punto imprescindibile in ogni concerto.

Poi Requiem (2007), spartiacque e primo, grande capolavoro, riportava la band nel territorio della psichedelia anni Settanta, tra Led Zeppelin, Pink Floyd e King Crimson, con un suono saturo e organico, registrato in presa diretta nel loro studio di campagna, l’Henhouse. Ogni brano varrebbe una menzione: nei 12’ e oltre di Sotto prescrizione del dott. Huxley si concentra l’essenza dell’opera.

WOW (2011) ha spalancato un mondo: doppio album monumentale, sospeso tra pop barocco (Razzi arpia inferno e fiamme) e sperimentazione (Miglioramento), dove l’ombra dei Beatles e la figura di Brian Wilson diventavano riferimenti assoluti (Loniterp che letto al contrario diventa Pretinol), pienamente assorbiti. È, a tutti gli effetti, il White Album dei Verdena.

Poi i due volumi di Endkadenz (2015), che condensano l’intero spettro del loro sound: un magma di suoni, riff e atmosfere, costruito su una logica da suite, dove ogni brano vive in relazione al successivo. Qui affiora anche l’influenza del Lucio Battisti di Anima latina (Contro la ragione), del quale i Verdena restano tra i pochissimi eredi. Una Nevischio alla Paul McCartney, il rock operistico di Inno del perdersi e l’eterea Nera visione rappresentano il culmine della loro libertà creativa.

Infine, il ritorno alle radici di Volevo magia (2022): le chitarre fradicie di Big Muff in Crystal Ball, il Rickenbacker saturo di Pascolare, il formato classico del power trio. Un album più diretto, quasi catartico, attraversato però da una malinconia evidente, che lo rende perfetto come lavoro di chiusura. Lo suggerisce anche il titolo: la band sembra voler riaccendere quella scintilla primordiale che il tempo, inevitabilmente, trasforma.

Dentro questo percorso, Roberta Sammarelli è sempre stata una presenza costante, attiva e fondamentale, spesso l’anello tra la band e il pubblico. Il suo basso ha dato corpo e respiro a un suono costruito su dinamiche, tensioni sottili, stratificazioni che solo un trio così affiatato poteva generare. Tutto ciò non è un dettaglio, è parte del DNA dei Verdena. Per questo la sua uscita pesa, perché segna la fine di un equilibrio irripetibile — quello di un gruppo che per più di due decenni è rimasto impermeabile a tutto: alle mode, alle logiche del mercato discografico, alla pressione mediatica.

I Verdena hanno sempre vissuto in un proprio universo, lontano dai riflettori, concentrati solo su una cosa: suonare e picchiare di brutto. E continueranno a farlo. Alberto e Luca Ferrari hanno già annunciato di essere al lavoro su nuovo materiale. La loro intesa è totale, consolidata da anni di registrazioni, tournée e progetti paralleli. Basti pensare al progetto 83705CH1 (da leggersi «Betoschi»), che diede alla luce l’LP omonimo, autoprodotto nel 2008, stampato in appena 300 copie e oggi oggetto di culto, testimonianza di un genio creativo fuori scala. Un capolavoro raro, da recuperare per chi se lo fosse perso per la strada.

Chissà quale direzione prenderanno i fratelli Ferrari: rimarranno in due, avvalendosi di session men o polistrumentisti come negli ultimi tour, oppure intraprenderanno la difficile strada del trovare un degno sostituto di Roberta Sammarelli? Sfida ardua, quest’ultima, non tanto per la complessità delle parti musicali, quanto per l’impossibilità di colmare un vuoto così profondo. Il baricentro, però, resterà lo stesso: i fratelli Ferrari e il loro modo unico di intendere il rock, con la radicalità e la cura maniacale per il suono che li hanno sempre distinti. La musica, in fondo, è cambiamento. E forse anche questa cesura potrà restituire un nuovo impulso.

La storia dei Verdena prosegue, per fortuna. Ma con l’uscita di Roberta Sammarelli si chiude davvero un’epoca: quella del trio che, dal nulla, ha saputo ridefinire la grammatica del rock italiano. Per tutto questo, e per tutto ciò che ancora verrà, dentro e fuori i Verdena, un applauso se lo meritano tutto.

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